Il 7 aprile 2020 un articolo del New York Times divulga i risultati di un’indagine preliminare sulla diffusione del Covid-19 negli Usa. È stata realizzata da un’équipe della Harvard Chan School coordinata dalla professoressa Francesca Dominici, docente di Biostatistica nella stessa università. Lo studio ha censito 3.080 contee, in cui risiede circa il 98% della popolazione federale, e ha incrociato i dati relativi alla presenza di microparticelle PM2,5 con il numero di persone decedute con sintomi da coronavirus fino al 4 aprile. Il nesso tra inquinamento atmosferico e virulenza del Covid-19 è stato oggetto di studio in altri Paesi, pur senza ricorso alla biostatistica.
Quella cappa di smog in Italia
In Italia la mortalità da Covid-19 rimane dibattuta: quali concause hanno contribuito al tragico numero di decessi a Bergamo e Brescia?
Il 17 marzo 2020, un gruppo di ricercatori della Società Italiana Medicina Ambientale (Sima) dell’Università degli Studi di Bari “Aldo Moro” e dell’Università di Bologna prospettano una correlazione fra microparticelle inquinanti e diffusione del virus in quelle zone.
Studi scientifici riconosciuti a livello internazionale hanno già dimostrato che il microparticolato (PM10 e PM2,5) favorisce la diffusione nell’aria di agenti patogeni e tossici. Considerando circa due settimane di incubazione, la ricerca ha incrociato i dati dell’inquinamento atmosferico, misurato dalle Agenzie regionali per la protezione ambientale (Arpa) dal 10 al 29 febbraio, con l’aumento del numero di contagi registrato fino al 3 marzo 2020.
Nella Pianura Padana l’espansione dell’infezione risulta coincidere con concentrazioni di particolato PM10 ben superiori ai limiti di legge, che ne avrebbero potenziato la virulenza. Per Alessandro Miani, presidente della Sima, l’impatto umano sull’ambiente ha ricadute sanitarie preoccupanti e questa pandemia dovrebbe costituire un monito per scelte coraggiose di sostenibilità ambientale e sociale.