Etiopia: di nuovo “a casa” Alessia Floriani a Haro Wato
Martedì, 18 Giugno 2024 07:31

Etiopia: di nuovo “a casa”

Dopo la laurea in giurisprudenza, sono tornata ad Haro Wato, in Etiopia. Vi racconto la mia seconda esperienza con le Comboniane

Sono Alessia, vivo a Trento con la mia famiglia e da poco sono laureata in giurisprudenza. Dopo la laurea, il 3 novembre scorso, sono partita per l'Etiopia e vi sono rimasta fino al 15 dicembre.

È la mia seconda esperienza, perché è come se quella terra rossa mi fosse entrata nei polmoni e ora scandisse il ritmo dei miei respiri. Per me, tornare è stato naturale e inevitabile, proprio come respirare.
Quattro anni fa, al rientro dal primo viaggio scrivevo: «Etiopia significa un’Africa diversa da quella che ti aspetteresti. Come la vita, del resto, sempre un po’ più o un po’ meno di ciò che puoi pianificare».
Queste parole, oggi, risuonano come un’eco insistente, perché l’Etiopia è stata ancora “l’Africa che non ti aspetti”: ogni mio pensiero si frammentava per intrecciarsi coi fatti.

Tra ieri e oggi
Nel 2019 avevo appena iniziato a capire cosa significasse vivere pienamente, lasciarsi trasportare dalle emozioni e dagli eventi: avevo appena iniziato ad assaporare la profondità di relazioni mature e arricchenti. Adesso, le mie percezioni si sono ampliate, e questo secondo viaggio è stato diverso… perché io sono diversa.
Dopo la laurea, come ci eravamo promesse con suor Marisa Zorzan, sono tornata nella missione di Haro Wato, sui monti Uraga. Rivedere quei posti, quei colori e quelle persone è stato intenso e coinvolgente.
Dal novembre 2020, per il conflitto in Tigray, l’Etiopia affronta una situazione di crisi umanitaria e istituzionale; per questo non mi aspettavo progressi nelle condizioni di vita. Con mia sorpresa, invece, qualche miglioramento c’è stato: nell’igiene personale, nei panni stesi al sole, nelle acconciature delle bambine per evitare i pidocchi... Sono piccoli-grandi segni di cambiamento a conferma che l’educazione gioca un ruolo essenziale nella vita delle persone ed è di grande aiuto per la società.

L’importanza di “esserci”
La presenza costante delle Comboniane, con la scuola e con la clinica, ha fatto sì che la popolazione acquisisse uno sguardo rinnovato sulla vita, sulle relazioni, e sulla gestione delle proprie risorse. Accedere alla scuola e alla sanità fa la differenza!
Nell’agosto 2019 la scuola era chiusa per vacanza, ma lo scorso novembre ho trascorso molto tempo nell’asilo: ha tre classi, ciascuna di circa cinquanta bambine e bambini. Ho aiutato maestre e maestri durante le lezioni, e quando loro erano assenti mi sono improvvisata maestra di arte, musica e sport in lingua oromo. Dal 2019 ne ricordavo appena qualche parola, ma insieme a bambini e bambine ho imparato anche a contare!
Coi ragazzi e le ragazze più grandi, invece, il dialogo si faceva più semplice perché potevamo scambiare qualche parola in inglese.
In ogni caso, non ho mai percepito la diversità linguistica come un ostacolo, né tanto meno come impedimento a incontrare le persone.

Il dono della relazione
Una maestra mi ha raccontato la sua storia, non sempre felice; ostacolata dalla famiglia, che non voleva andasse a scuola, ha affrontato le sfide con determinazione, convinta delle proprie capacità e fedele alle proprie aspirazioni. Questa maestra ha compreso che la più grande risorsa della sua vita è lei stessa e che la forza di cui ha bisogno la può trarre dalla sua fede. A scuola, lei è stata gli altri miei occhi e la voce che mi veniva in aiuto quando ne avevo bisogno.
Quante volte, nella nostra vita, ci risulta complicato relazionarci con altre persone; spesso si percepisce una certa distanza ed esitiamo a confidare i nostri pensieri e le nostre idee. Eppure parliamo la stessa lingua, veniamo dallo stesso posto, abbiamo lo stesso credo. Ma non ci capiamo.
Ancor più che nella prima esperienza, questa volta ho constatato che né la lingua, né la professione di fede costituiscono ostacoli alla comunicazione: per entrare in relazione occorre innanzitutto la volontà di creare quel legame. Occorre capacità di ascolto ed empatia; ed è difficile.

Rivelazione inattesa
La sera prima di tornare in Italia mi son venute alla mente tutte le immagini delle cinque settimane trascorse ad Haro Wato, e mi son resa conto di quanto quei luoghi e quelle persone fossero entrate nel mio mondo, anzi, quanto siano state il mio mondo. Quanto tempo ci vuole per abituarsi a un posto?
A me ci è voluto fino a quell’ultima sera per rendermi conto che quella comunità – con le sorelle Nora e Teresina, i padri e tutte le persone che gravitano attorno – era diventata la “mia casa”; che quelle persone erano diventate la mia famiglia; che quei luoghi avevano riempito i miei occhi e il mio cuore.
De André cantava: «il cuore rallenta / la testa cammina». È proprio quello che è successo a me. Durante il mese e mezzo di permanenza avevo provato a decifrare le mie emozioni, ma non ci ero riuscita: tanta era la vita che respiravo lì, tutta compressa in poche settimane!
La mia testa, che mai smette di camminare, ha compresso in un mese e mezzo i pensieri che faresti in una vita intera.
Sono grata ad ogni singola anima e a ogni cuore sincero che ho incontrato; sono grata anche a ogni persona con la quale – a tratti – è stato difficile relazionarsi. Da ciascuna ho imparato qualcosa che porterò sempre con me.

Non più ospite
Anche questa volta, l’Etiopia è stata “l’Africa che non ti aspetti”. Esattamente come la mia vita, piena d’amore, di cose da imparare e di persone belle davvero!
Questa volta l’Africa mi ha incoraggiata a saper accogliere l’amore, così come viene, senza giudicare quel che sento.
Una sera, una Comboniana mi ha detto: «Tu non sei più un’ospite; tu sei a casa». Forse per questo il mio sguardo sulla realtà è stato un po’ più concreto e anche un po’ più disincantato. Ma, come la prima volta, è rimasto uno sguardo pieno di senso d’appartenenza per quella terra rossa.

Dopo cinque settimane ad Haro Wato, sono andata ad Hawassa prima, e poi ad Addis Abeba, per trascorrere gli ultimi sette giorni. Nel viaggio verso Hawassa ho guardato dal finestrino i monti Uraga, la zona delle piantagioni di caffè, kocho, di barbabietola da zucchero e orzo. Piantagioni infinite. Strade rosse, sterrate; la macchina che sobbalza di continuo. Capanne e case in korkorò dipinte dei più vari colori. Per le strade – e nel mio cuore – le voci di bambine e bambini che gridano “obboleettii!”, “sorella!”.
Anche stavolta, tornare a casa mi è costato un po’: anche stavolta, per tornare a casa ho dovuto lasciare casa.

Last modified on Martedì, 18 Giugno 2024 07:38

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