L’esito alternante di ben dieci battaglie tra milizie rivali aveva fatto fuggire da Malakal tutta la popolazione civile, lasciandosi dietro morte e distruzione. Si era toccato il fondo, e risalire da quell’abisso sarebbe stato difficile.
Il 9 febbraio 2024, al termine della sua visita in Sud Sudan, il cardinale Michael Czerny, prefetto del Dicastero vaticano per lo Sviluppo Umano Integrale, commentava positivamente il suo breve soggiorno a Malakal: in una città che era stata rasa al suolo ha visto segni di rinascita.
Le sue parole mi ispirano due riflessioni. La prima mi porta a ripercorrere i faticosi anni di combattimenti e insicurezza, durante i quali pochissime persone osavano tornare in una città contestata da vari partiti belligeranti. L’accordo di pace del 2018 aveva riaperto qualche speranza, ma nonostante quell’accordo, Malakal rimaneva una realtà anomala. La popolazione della città contava appena qualche migliaio di persone, mentre il vicino campo Onu per la protezione dei civili ospitava oltre 30.000 persone sfollate dalla guerra, molte delle quali abitavano originariamente in città.
Fino ad oggi chi viene a Malakal non comprende come possa continuare una tale separazione della cittadinanza. Le tradizionali divisioni etniche del passato nel moderno Sud Sudan sono state largamente politicizzate, così che la convivenza e la condivisione delle risorse risultano davvero difficili.
Papa Francesco ha ripetutamente lanciato l’allarme sui nazionalismi e sulla convinzione che si possano privilegiare gli interessi del proprio gruppo ad esclusione degli altri. La divisione che ancora affligge la città di Malakal è un esempio lampante delle conseguenze negative di questa convinzione, così che creare una società omogenea diventa pressoché impossibile.
Per distruggere la città sono bastati poco più di due mesi, ma a un decennio di distanza la ricostruzione, anzitutto del tessuto sociale, non è ancora completa. Negli ultimissimi anni si sono comunque visti dei cambiamenti, in parte causati da fattori al di fuori del controllo umano. Le alluvioni causate dal cambiamento climatico hanno portato a Malakal quasi 2.000 sfollati e la guerra scoppiata il 15 aprile 2023 nel vicino Sudan ha contribuito a cambiare la demografia della città, che attualmente ospita un grande campo profughi.
Le persone, arrivate per ragioni indipendenti dalla propria volontà, stanno comunque restituendo alla città la vivacità che la caratterizzava prima della distruzione. Dopo 10 anni di desolazione, la zona del mercato è tornata a brulicare di gente, e l’8 febbraio scorso il cardinale Czerny ha visto una chiesa affollatissima per la celebrazione della sudanese Santa Bakhita.
Quasi senza rendersene conto, la gente di Malakal sta ricostruendo la propria città. Ad esempio, la chiesa di Santa Bakhita, a cui era stato rimosso persino il tetto, ora è stata riparata e riaperta al culto. Malakal sta faticosamente rinascendo. È una dinamica comune a tante altre città che hanno conosciuto gli effetti devastanti della guerra.
La mia seconda riflessione è connessa a questi eventi di distruzione e morte, che continuano a ripetersi ciclicamente nella storia umana. Ciò che è stato costruito con fatica da tante generazioni può venire demolito rapidamente, in Sud Sudan e in tanti altri teatri delle guerre contemporanee: Ucraina, Palestina, Sudan...
Se è vero che dalla storia impariamo a non commettere gli stessi errori, nel caso di Malakal, città funestata in pochi mesi da 12 battaglie, spero che l’esperienza del 2014 serva a fare oggi scelte durature di rinascita e di pace: mai più la guerra!