Sono cresciuta nelle foreste della Columbia Britannica: da bambina ero solita sdraiarmi per terra a pancia in su e contemplare le chiome degli alberi. Dei giganti! Anche mio nonno era un gigante, un boscaiolo che tagliava gli alberi in modo molto rispettoso. Mi ha insegnato il modo tranquillo e coeso in cui i boschi sono strutturati, e come la mia famiglia fosse a loro legata. Io ho seguito le sue orme: le foreste incuriosivano me come incuriosivano lui.
Un giorno, il cane del nonno cade in una buca. Per aiutarlo a uscire, lui prende una pala e inizia a scavare per al-largare la buca. Io lo aiuto, e scopro che sotto il “pavimento” della foresta c’è un incredibile intreccio di radici e ter-ra con strati di vari colori: sono le fondamenta del bosco! Ne rimango affascinata.
L’importanza di farsi domande
Dopo la prima laurea, in scienze forestali, iniziai a lavorare per una grande ditta di legname, che però disboscava in modo selvaggio, allarmante. Come se non bastasse, eliminava betulle e pioppi per piantare pini e abeti, il cui legname era commercialmente più pregiato. Quell’implacabile macchina industriale sembrava inarrestabile. Soffrivo un conflitto interiore lacerante, così decisi di riprendere gli studi.
In laboratorio, gli scienziati avevano già notato che attraverso le radici una pianticella di pino poteva trasmettere carbonio a un’altra pianticella di pino; cominciai a chiedermi: «Può accadere lo stesso in natura, nella foresta?». Secondo me, anche gli alberi del bosco potevano comunicare fra loro nel “sottosuolo”, ma la questione era con-troversa e c’era chi pensava che fossi pazza. Non è stato facile reperire fondi per finanziare la mia ricerca, ma la perseveranza ha avuto la meglio.
Nel 1991 comincio a fare i primi esperimenti in foresta; in un settore assegnatomi faccio crescere 80 “triadi” di alberelli di specie diverse: una betulla da carta, un abete di Douglas e un cedro rosso del Pacifico. Parto dal presupposto che betulla e abete possano comunicare fra loro attraverso le radici, ma non possa farlo il cedro.
Preparo ciò che serve a verificare le mie ipotesi. Non avendo molti soldi, lo faccio al risparmio: compro sacchi di plastica trasparente, nastro adesivo, panno scuro “parasole”, un camice monouso, un respiratore e un timer. Dall’università prendo in prestito le strumentazioni: il contatore Geiger, lo spettrometro di massa, i microscopi… Infine, con tutti i necessari permessi, mi procuro il materiale più pericoloso e indispensabile: siringhe piene di ani-dride carbonica (CO2) radioattiva marcata con carbonio-14 e bottiglie ad alta pressione di CO2 con carbonio-13. Dimenticavo però qualcosa di molto importante: i filtri di ricambio per il respiratore e un repellente per insetti e… per orsi!
Scoperta rivoluzionaria
È estate. Con un camion carico di tutto il materiale raggiungo con i miei collaboratori il luogo dell’esperimento, ma un’orsa grizzly con tanto di cucciolo ci caccia via. Torniamo l’indomani: l’orsa non c’è, così installiamo le apparecchiature. Mi metto il camice, il respiratore, e inizio a preparare le 80 “triadi di alberi”: avvolgo la betulla con un sa-co di plastica trasparente e vi inietto la CO2 radioattiva, mentre in quello che avvolge l’abete inietto CO2 con carbonio-13; lo faccio per verificare una possibile comunicazione bidirezionale fra le due specie di piante. Alternativamente, nelle diverse repliche, copro uno dei due alberi con il panno scuro per bloccare la fotosintesi. Sono all’ultima betulla, con la siringa di materiale radioattivo in mano, quando arriva di nuovo mamma orsa. Mi insegue minacciosa e io corro al riparo sul camion… e capisco perché si preferisca condurre gli esperimenti in laboratorio!
Rimango protetta nell’abitacolo del camion per un’ora: nel frattempo la fotosintesi deve aver permesso agli alberelli di assorbire la CO2, di produrre un po’ di amido e di inviarlo alle radici. Mi accerto che l’orsa non sia più nei paraggi: la vedo lontana, intenta a cibarsi di frutti di bosco. Esco subito dal camion e raggiungo le pianticelle: tolgo il sacco di plastica trasparente dalla prima betulla e con il contatore Geiger verifico la presenza di carbonio-14 nelle foglie: il suo “zzzz” mi conferma che la pianta ha assorbito CO2 radioattiva. Arrivo all’abete, gli tolgo il sacco di plastica e il materiale parasole con cui lo avevo avvolto e appoggio il contatore Geiger sui suoi aghi. Mi metto in ascolto: “zzzz”. È il suono più meraviglioso che abbia mai udito! La betulla aveva donato il suo carbonio-14 all’abete, che non aveva potuto fare la fotosintesi perché coperto dal panno parasole!
Infine mi avvicino al cedro e appoggio il contatore Geiger anche sulla sua chioma: a conferma della mia ipotesi, c’è assoluto silenzio. Lui non partecipava alla comunicazione perché, come verificato in altra occasione, sviluppa un altro tipo di micorriza.