Il cammino sinodale delle chiese italiane riprende con una nuova fase di ascolto. Forse perché le resistenze ecclesiali al cammino sinodale sono state molte (e abbastanza prevedibili): autoreferenzialità, clericalismo, paura, maschilismo, ignoranza, lontananza dalla vita concreta e – purtroppo – potremmo continuare. A fronte di tutto questo un anno di ascolto non ci è bastato.
D’altra parte l’ascolto fatto ha condotto a delle sintesi che poi sono state alla base di una sintesi generale. Abbiamo così una base per continuare, ma anche in questo caso le ombre non mancano: le sintesi (dei gruppi, delle diocesi come quella generale) sono state riapprovate? I diversi gruppi, che si sono attivati spontaneamente e hanno inviato il risultato del loro lavoro, hanno potuto verificare che quanto hanno detto sia entrato nella sintesi? Forse è successo qualche volta, ma non in modo sistematico, e forse così corriamo il rischio che pochi decidano che cosa sia importante di ciò che si è ascoltato.
Ascolto e discernimento invece si richiamano: se anche possono essere solo alcuni a indicare le varie opzioni possibili di fronte ad una questione, dovrebbero però essere tutti ad approvare di cosa discutere (cioè quale sia la questione importante) e a prendere parte alla decisione su quale fra le opzioni indicate dai pochi si vuole perseguire.
Cantieri in ritardo…
Sulla stessa linea, fra luci ed ombre, come correndo lungo un viale alberato (fra le perplessità ricordo quanto già scritto in questo blog da Marinella Perroni circa gli stereotipi per il maschile e il femminile), si trova anche il documento I cantieri di Betania, consegnato alle chiese per questo secondo anno: molti gli spunti, ma resta la sensazione che dovremmo essere più avanti di così.
Ci viene ricordato per esempio che non si può stare fermi, come credenti e come chiesa, ma bisogna camminare, come Gesù e i suoi: ma davvero non sappiamo ancora che non c’è forma di chiesa o espressione dottrinale che non sia stata in movimento e che non possa essere messa in movimento?
Poi ci viene detto che dobbiamo camminare sulla strada dove camminano tutti. Ma perché altrimenti dove si può camminare? Se abbiamo bisogno di un tale richiamo, forse dovremmo chiederci che chiesa siamo stati fin qui. Come hanno potuto le nostre prassi (dai vestiti, ai titoli fino al modo di celebrare e decidere, guadagnarsi da vivere, gestire i beni ecc…) e il nostro linguaggio essere diversi da quelli degli uomini e le donne in mezzo ai quali viviamo?
Infine il documento dei cantieri di Betania ci offre alcune importanti consapevolezze ecclesiali, in modo particolare quando, riflettendo sulle relazioni ecclesiali, parla di strutture (finalmente!). Se non cambiamo le strutture, infatti, e permarranno le attuali gerarchie e distanze, non si daranno realmente nella chiesa fraternità e sororità.
Ultimo arriva il riconoscimento dell’importanza della formazione (sacrosanto!), ma quando il Concilio aveva parlato del prendere parte di tutti alla liturgia, al servizio e all’annuncio, questo non portava con sé l’urgenza di avviare percorsi formativi che lo rendessero possibile?
Viene di nuovo da chiedersi come mai siamo ancora a questo punto.
… per la paura di cambiare
Una possibile risposta ci viene proprio dal brano scelto come trama del cammino: quello in cui Gesù si ferma in casa di Marta, Maria e Lazzaro, e Marta si lamenta della sorella mentre Gesù la difende dicendo che si è scelta la parte buona.
Certamente è un brano che ci mostra Gesù nel villaggio e nella casa, ci parla di amicizia e di relazioni, mette al centro l’ascolto della Parola (tutti aspetti che il documento dei cantieri mette in risalto), ma è anche un brano – l’esegesi ormai ce l’ha dimostrato – in cui l’evangelista riporta le tensioni interne alla comunità per cui alcuni (forse anche lui stesso) avevano l’intento di screditare il ruolo di leader delle donne, il quale invece, leggendo altri brani del NT e vedendo la prassi delle prime comunità, appare chiaramente diffuso e riconosciuto.
È un brano allora che ci mette in guardia da una tendenza costantemente presente nella chiesa: quella di cercare di rimettere le persone al loro posto (se sono donne lo facciamo con particolare gusto), mantenendo l’ordine di sempre, e magari pensando bene di precisare che è il Signore a volere così. Queste tensioni ci sono sempre state: il Vangelo stesso ci testimonia, come nel brano di Marta e Maria, la paura di alcuni di andare fino in fondo nel seguire lo stile di Gesù, di accettarne le conseguenze anche sulle gerarchie sociali e sulle culture.
Sarebbe importante allora, ricordando Betania, ricordarsi di cosa altro viene raccontato dai Vangeli su quella casa e sugli amici (le amiche in particolare) di Gesù.
Dovremmo ricordare che nel Vangelo di Giovanni (cap. 12) troviamo Maria, oltre che zitta ai piedi di Gesù, intenta ad ungerli ispirando al Signore, come una maestra, il gesto che lui sceglie di ripetere come memoriale della Pasqua: la lavanda dei piedi.
E dovremmo ricordare Marta (Gv 11) tutt’altro che zittita, ma provocata a parlare da Gesù stesso, fino a che lui la conduce, mentre le si rivolge standole di fronte, a professare la sua fede in colui che le si rivela come la resurrezione e la vita. Una professione di fede, quella di lei, piena e senza tentennamenti, a differenza di quella di Pietro, che fu subito ripreso da Gesù (cfr. Mt 16).
Forse ci serve ancora uno sguardo diverso, capace di uscire dallo scontato, di riconoscere ciò che manca senza scuse e di collocarsi fuori campo. Forse ci serve più coraggio. Forse davvero dobbiamo riprendere l’ascolto, ma chiamando per nome ciò che non riusciamo a fare e su cui vogliamo decidere come cambiare: provando a decidere insieme su che cosa e perché vogliamo cambiare. Perché quando si cammina, bisogna pure fare qualche passo.