Anche lei, per i canoni afghani, non è perfetta avendo una mano semiparalizzata, motivo per il quale quando le hanno proposto un uomo analfabeta di 24 anni più grande, come marito, ha dovuto accettare. Aveva 15 anni in un mondo in cui le donne, in Afghanistan, o sono figlie di qualcuno o sono mogli di qualcuno. Da sole non esistono, e con l’arrivo dei talebani che hanno conquistato il paese lo scorso agosto, quei piccoli progressi di emancipazione che avevano fatto, sono volati via come foglie al vento in una giornata d’autunno.
Ialda ci racconta di come aiuta la madre, di come accudisce i fratelli ora che lei sta invecchiando. Fratelli difficili, dai 15 ai 38 anni, che vanno lavati, spostati, persone che ti sorridono quando li saluti ma capaci di pugnalare la madre se non sta attenta alle posate, perché ormai sono grandi e forti e hanno bisogno di assistenza continua. Bisogna cambiare loro i pannoloni, dargli da mangiare, tenerli calmi. Fratelli che in ogni caso non le avrebbero permesso di avere un marito più giovane perché, secondo i genitori, avrebbe preso in giro i ragazzi e così lei è dovuta scendere a compromessi.
«Una donna in Afghanistan non è nulla, serve solo a fare figli e tenere a bada la casa. Ho studiato, pensavo che un giorno avrei lavorato, invece ora sono prigioniera nella mia casa». Prigioniera di un sistema tradizionale e conservatore, ma anche di un uomo non istruito con il quale non riesce a trovare nulla di cui parlare, che la odia perché è più intelligente di lui e neanche la saluta quando rientra la sera, dopo aver spinto la carriola tutto il giorno al mercato per guadagnare qualche centesimo.
«La mia vita non più senso. Non ho neanche voglia di leggere un libro o ascoltare musica, perché tutto mi riporta a quello che non avrò mai: la possibilità di fare ed essere quello che voglio, anche solo per un momento». Parla e piange come se le parole fossero fatte di lacrime. Almeno fino a quando arriva la madre e racconta del marito morto l’anno scorso per il Covid, del fatto che loro non possono lavorare e che, per fortuna, qualcuno le aiuta. E allora altre lacrime che scorrono sui volti di donne che conoscono tutta la sofferenza di quella famiglia e di quei figli, e quei fratelli che le guardano senza capire, emettendo qualche gemito di tanto intanto.
Tuttavia Harfa, che è sulla sessantina, e Ialda non sono completamente sole e abbandonate.
E non siamo qui da loro per caso. Una vecchia conoscenza e una stretta amicizia ci hanno portato su quella ripida salita ghiacciata che conduce a casa loro, una casa umile ma ben tenuta. Dove i cuscini hanno colori vivaci e il calore della stufa riscalda la tristezza della stanza, portandosene via un po’. Se fossero completamente sole, non sarebbero sopravvissute.
In Afghanistan è difficile quando stai bene, in questo caso vivi sempre sull’orlo del baratro che per ora hanno accantonato. Perché la famiglia di Harfa rientra in uno dei progetti di Nove Onlus, un’associazione italiana che ad agosto ha dovuto chiudere e cancellare tutto − come ogni ong del paese che non trattasse di sanità, soprattutto quelle coinvolte nell’emancipazione delle donne − per timore dell’arrivo dei talebani. In prima fila durante le evacuazioni di agosto, che hanno portato in Italia molti afghani in pericolo, ora, come altre organizzazioni, pian piano stanno riaprendo i progetti di emergenza in accordo con i requisiti necessari. A partire dall’aiutare famiglie in estremo bisogno come quella di Harfa, che riceve 140 euro al mese.
«Possiamo prendere da mangiare, abbiamo una stufa, un tetto, ma soprattutto i pannoloni per i ragazzi che a volte sono più importanti del cibo», mormora Harfa che continua a ringraziarci mentre le diciamo che non abbiamo fatto nulla se non raccontare la sua storia. «Non è vero − interviene per la prima volta Wahab, che lavora per Nove e ci ha accompagnato −, far conoscere queste storie è importante quanto aiutare queste persone. Siamo una squadra, voi ci aiutate a far sapere che c’è gente che ha bisogno di aiuto e come darglielo. Queste persone hanno bisogno di soldi è vero, ma anche di amore». Di sapere che per qualcun altro esistono.
Ialda si accarezza la pancia, ci siamo quasi, il termine è tra dieci giorni, ma ormai potrebbe accadere in qualsiasi momento. Sai già se è un maschio o una femmina? «Una femmina», risponde con la voce che le si incrina. Sappiamo tutti che sta pensando al futuro che avrà, a quell’enorme tunnel in cui le donne afghane camminano ogni giorno senza mai vedere la luce.
Ialda, sei una maestra, insegnerai ai tuoi figli a leggere e scrivere e loro magari avranno un futuro diverso. «Lo so che tutti hanno delle speranze, ma mi sento come se avessi perso tutto, non voglio che loro studino, perché chi è ignorante prova meno dolore. E non pensare che la mia vita sia peggiore di quella delle altre, migliaia di afghane sono come me. Tutto quello che ora posso sperare è di morire o che muoia mio marito».
Dall’altra parte della città, un’altra donna ci aspetta. Anche Marina fa parte di una delle sei famiglie assistite da Nove Onlus, quattro figlie, un figlio, tutti piccoli. Trentaquattro anni, vedova, riceve 165 euro al mese. La sua casa modesta è però piena delle voci dei bambini che giocano con dei palloncini. Se ne stanno intorno a un fornello per tenersi caldi alla fiamma viva, che ogni tanto la più piccola tenta di toccare premurosamente fermata dal fratellino di poco più grande.
Marina è stata una soldatessa e ora ha tanta paura che i talebani la scoprano, ha già cambiato tre case da agosto. Quando l’avevamo vista lo scorso giugno, quando si credeva che l’Afghanistan non sarebbe precipitato nel baratro così in fretta, Marina era un’intrepida autista che però non è riuscita a salire sull’aereo dell’evacuazione. «Da quando sono arrivati qua i talebani, sono inchiodata, con gli aiuti sopravviviamo ma non sappiamo cosa ci aspetta; volevo studiare, volevo che i miei figli studiassero, e invece è tutto cambiato. Ma sono loro la speranza, sono la speranza di tutte le madri afghane che in qualche modo, prima o poi, abbiano un futuro migliore del nostro».