Fürstenberg è una piccola cittadina a circa 70 chilometri da Berlino. Immersa nel verde, è bagnata dai laghi di Schwedt e Baalen. A pochi chilometri da lì, sulla sponda opposta del lago, si trova il campo di concentramento nazista di Ravensbrück. Il più grande lager femminile in territorio tedesco. Qui sono state detenute, tra il maggio del 1939 e l’aprile del 1945, circa 130mila donne. Di queste, 90mila non sopravvissero.
Circa 40mila hanno potuto raccontare una storia di salvezza che non parla di rabbia, né di violenza, ma di vita e solidarietà.
Forse anche per questo, a pochi giorni dalla giornata della memoria, che onora il ricordo di chi ha sopportato, di chi ha combattuto, e di chi non ce l’ha fatta, la Conferenza Episcopale Italiana celebra il 5 febbraio la 39° giornata della vita. Quest’anno «nel solco di madre Teresa di Calcutta» la santa degli ultimi, che si è presa cura dell’esistenza, per «favorire la difesa di ogni persona umana dallo sbocciare della vita fino al suo termine naturale».
Un invito a prendersi cura, che risuona da Ravensbrück: donne arrestate, anche in stato di gravidanza, vi dovevano abortire o assistere all’uccisione della vita che avevano appena partorito. Il lager era anche un luogo di sperimentazione medica; vi si testavano nuovi farmaci o nuovi tipi di operazione. Nel gennaio del 1945, a pochi mesi dalla liberazione, il programma medico prevedeva esperimenti di sterilizzazione con raggi X.
Ma anche in quel luogo di morte, sulle sponde di Baalen, vinse la vita nel cuore di donne che si affidarono le une alle altre con solidarietà. Trovarono la forza di riunirsi e organizzarsi per sopravvivere: istituirono corsi scolastici segreti, nel buio della notte, quando le guardie non potevano ascoltare; elaborarono una rete di aiuti e coperture per le più deboli. Si tennero vive l’una con l’altra, fianco a fianco, benché venissero da paesi lontani, da culture diverse, a volte anche in contrasto.