#PerúPaísDeVioladores rappresenta un grido di protesta ma, al tempo stesso, è una richiesta di aiuto che proviene dalle donne peruviane, costrette giorno dopo giorno ad affrontare una situazione insostenibile nella più totale indifferenza delle istituzioni e dei settori più reazionari della Chiesa. I centri “Emergenza donna” ricevono ogni giorno denunce provenienti in gran parte da minori di 17 anni per episodi di violenza sessuale. Spesso l’opinione pubblica condanna le donne per il loro modo di vestire o trova comunque qualche appiglio per ritenerle colpevoli; per questo provocatoriamente l’avvocata Fátima Toche ha rivolto ai suoi connazionali la seguente domanda: “Vi indigna più la realtà o un hashtag?”.
Nonostante i casi di violenza sessuale sempre più frequenti commessi per le strade, le molestie sul luogo di lavoro e le volgarità dilaganti sui social network, la prima ministra Mercedes Áraoz ha chiesto con forza che l’hashtag della discordia fosse cancellato perché il Perú rischia di essere percepito come un Paese dove la violenza maschile imperversa e tutto ciò danneggia enormemente la sua immagine. Non solo. Le deputate Marisa Glave e Indira Huilca sono state deferite presso la Commissione etica del Congresso per aver condiviso l’hashtag e aver chiesto allo stesso Congresso un maggior impegno per contrastare la violenza sulle donne. Addirittura, la congressista fujimorista Cecilia Chacón ha bollato l’hashtag come “ridicolo e assurdo”, rimarcando che il Perú è un paese “di grandi uomini, di padri, di sposi e di figli meravigliosi e, come ovunque, esistono persone perbene e malintenzionati”.
In realtà, al Congresso giacciono numerosi progetti di legge dedicati ad arrestare la violenza di genere, ma sono in attesa di essere approvati da tempo immemore. Le istituzioni non riconoscono che in Perú la violenza sessuale si è trasformata in un problema di sicurezza pubblica, sia per le sofferenze a cui è costretta a far fronte la vittima sia per la dilagante impunità, alimentata da un dilagante machismo. A questo proposito, i settori più reazionari della Chiesa peruviana e dei gruppi evangelici hanno promosso la campagna Con mis hijos no te metas, volta a scongiurare l’inserimento dell’educazione sessuale nel Currículo Nacional de Educación Básica, approvato dal ministero dell’Istruzione, poiché ritenuto parte di “una ideologia di genere” diretta a promuovere, tra le altre cose, l’omosessualità, e a destabilizzare le famiglie. Gran parte dei congressisti è stata votata proprio per sostenere queste istanze e in particolare proibire qualsiasi tipo di menzione del termine “genere”.
Nel 2016 il cardinale Juan Luis Cipriani, dell’Opus Dei, nel corso di un programma radiofonico, affermò che “secondo le statistiche ci sono molti casi di aborto da parte di bambine o adolescenti, ma la causa non risiede negli abusi commessi su di loro, quanto, piuttosto, nelle loro provocazioni”. Ancora peggiori le affermazioni del medico Luis Almeyda, direttore del Servicio de Adolescencia del Instituto Nacional Materno Perinatal, il quale, nel corso di un’intervista televisiva, dichiarò che la natura era meravigliosa proprio per le gravidanze di giovani e giovanissime, ignorando che le bambine di 7-8 anni in stato interessante rappresentano casi evidenti di violenze sessuali.
Secondo gli ultimi dati in possesso del Seguro Integral de Salud, tra il 2001 e il 2016, 11.781 bambine tra i 9 e i 14 anni sono diventate madri e la tendenza non si è certo invertita nel 2017 e in questi primi mesi del 2018. “Ci chiamano pazze quando diciamo che ci stanno uccidendo e ci chiedono le prove quando denunciamo che siamo state violentate” hanno evidenziato le femministe peruviane. La battaglia per fare in modo che gli autori delle violenze siano condannati a pene più dure e l’impegno per costruire una società meno machista in Perú continua ad essere in salita. Per questi motivi, l’hashtag #PerúPaísDeVioladores deve diventare virale.