I Neet, in realtà, esistono da molto tempo, nel senso che il passaggio all’età adulta, che i sociologi chiamano più precisamente “transizione”, presenta ordinariamente dei periodi di pausa tra la fine degli studi e il momento in cui si entra più o meno stabilmente nel mondo del lavoro. Questi periodi, peraltro, possono essere momenti di riflessione fondamentali per la vita delle persone: pensiamo a chi si prende un anno sabbatico per girare il mondo o per fare volontariato.
Negli ultimi vent’anni, però, il fenomeno ha iniziato ad essere considerato un problema: il termine Neet è stato utilizzato per la prima volta nel 1999 dalla Social Exclusion Unit del governo britannico perché questi “periodi indefiniti” sono diventati più prolungati rispetto al passato e soprattutto, in molti casi, non sono una scelta di chi decide, come nel caso di un anno sabbatico, di uscire dall’imperativo “produttivista” in cui le società capitaliste ci confinano, ma costituiscono piuttosto una condizione di potenziale esclusione sociale.
IN TRANSIZIONE
Secondo la sociologia, la transizione all’età adulta comprende 5 momenti di passaggio: la fine degli studi, l’inserimento relativamente stabile nel mercato del lavoro, l’uscita dalla casa dei genitori, la formazione di una propria famiglia e l’avere un figlio. Naturalmente non si tratta di passaggi obbligati, quanto piuttosto di indicatori della transizione dell’individuo dall’età giovane a quella adulta. Negli ultimi decenni questa transizione in Italia avviene in età sempre più avanzata: si pensi che il primo rapporto inglese sopracitato riguardava giovani di 16-18 anni, le prime indagini in Italia estendevano l’età fino a 24 anni, e oggi è comune considerarla fino a 29 anni, se non addirittura fino a 34.
COSA FANNO CONCRETAMENTE I NEET?
Giovani non impegnati nello studio, nella formazione o nel lavoro si distribuiscono in categorie diverse: c’è quella di coloro che si prendono una “pausa di riflessione” per orientare il proprio futuro; ci sono disoccupati “puri” che stanno attivamente cercando un lavoro; ci sono coloro che, a causa del difficile incontro tra le proprie competenze e quelle richieste dal mercato del lavoro, attendono l’impiego giusto; ci sono coloro che non cercano lavoro perché hanno già carichi di cura verso altre persone (anziani, bambini piccoli…) o che comunque non possono lavorare per qualche ragione, e infine c’è il gruppo di persone che non cercano più lavoro perché ormai demotivate. Quest’ultima categoria, insieme a quella dei disoccupati, è probabilmente la più critica, nel senso che rimanere a lungo in questa condizione rischia di portare a una vera e propria esclusione, non solo lavorativa ma anche economica e sociale.