Venerdì, 02 Ottobre 2020 14:17

Frammenti di storia

Al termine della Seconda guerra mondiale, Stati Uniti d’America e Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche si impongono come superpotenze mondiali contrapposte: la prima rappresenta la democrazia capitalista e l’altra il socialismo reale. Nell’ottobre 1962 la loro corsa alla supremazia militare rasenta il baratro della distruzione nucleare: il 27 è il giorno fatidico della crisi dei missili di Cuba. Il presidente Usa, John Fitzgerald Kennedy, e quello sovietico, Nikita Kruscev, la scongiurano

Aneliti di supremazia
La paura condivisa di un terzo conflitto mondiale, che avrebbe messo a rischio la sopravvivenza stessa dell’umanità, evita lo scontro aperto e diretto fra Usa e Urss, ma sposta la contrapposizione militare in rivoli di guerre per procura che insanguinano Asia, Africa e America Latina: la “Guerra fredda”. Per decenni la competizione fra le due superpotenze pervade anche l’ambito spaziale, tecnologico, ideologico, psicologico e sportivo. Il crollo del muro di Berlino nel 1989 e la dissoluzione dell’Urss alla fine del 1991 marcano simbolicamente la fine della Guerra fredda. Negli anni successivi il blocco occidentale e la Federazione Russa sviluppano una crescente integrazione economica, ma tra le parti la sfiducia reciproca non viene meno e negli ultimi vent’anni essa causa ricorrenti tensioni tra i due Paesi.

Negli ultimi cinquant’anni la Cina ha registrato un incredibile sviluppo economico e tecnologico che le ha permesso di centuplicare il reddito medio dei suoi cittadini e di espandere la propria influenza diretta o indiretta su molti Paesi nel mondo, compresi gli Stati Uniti, di cui detiene 1,2 trilioni di dollari di debito pubblico. Da circa tre anni, gli Stati Uniti tentano di arginare l’espansione cinese con una guerra commerciale a colpi di dazi, che si concentra principalmente su brevetti e proprietà intellettuali e sulla concorrenza nelle tecnologie digitali.

Spauracchio immigrazione
L’intensa immigrazione del secolo scorso si è inserita gradualmente nel contesto sociale statunitense, ma il suo contributo è diventato ricchezza per il Paese soltanto alla seconda/terza generazione.
Dalla fine degli anni Ottanta, gli Usa hanno adottato diverse misure per contenere l’immigrazione legale: lo stesso limite di visti per lavoro o ricongiungimento familiare è applicato a tutti i Paesi, indipendentemente dalla loro popolazione, e riduce notevolmente l’immigrazione da nazioni popolose come Messico, Cina, India e Filippine. Allo stesso tempo, il numero di visti disponibili per lavoratori non qualificati è in costante diminuzione, forzando molti – in maggior parte messicani e centroamericani – ad attraversare clandestinamente la frontiera con il Messico. Il picco è stato registrato nel 2007, con 12,2 milioni di immigrati.

Nel 2012, un ordine esecutivo del presidente Obama istituisce la Deferred Action for Childhood Arrivals (Daca), misura che garantisce a minori immigrati “clandestinamente” di ottenere un permesso di lavoro, ma nel 2017 il presidente Trump annuncia la sua intenzione di smantellarla. Viene bloccato dalla Corte suprema, ma la sua tolleranza zero verso l’immigrazione, sbandierata in campagna elettorale, continua. Anche la costruzione del muro lungo la frontiera tra Messico e Usa, però, langue: secondo Trump doveva essere pagato dal Messico, che, ovviamente, non lo finanzia. Così, per mancanza di fondi, nel giugno 2020 risultavano ultimati appena 320 dei 3.218 chilometri previsti.

Razzismo strisciante
La promulgazione del Civil Rights Act del 1964, la legge che dichiara illegale la segregazione razziale nelle scuole, nei posti di lavoro e nelle strutture pubbliche in generale, e quella del Voting Rights Act nel 1965, che proibisce la discriminazione razziale nell’accesso al voto, furono grandi vittorie per il riconoscimento dell’uguaglianza di tutti i cittadini. Ma neppure l’elezione del primo presidente afroamericano nel 2008 ha smantellato mentalità e sentimenti razzisti. Movimenti suprematisti bianchi, come il Ku Klux Klan, non hanno mai cessato di esistere, e negli ultimi anni si sentono addirittura legittimati dal silenzio complice del presidente Trump.

La popolazione Usa è costituita da afroamericani per il 14%: uno su cinque vive in povertà, la metà di loro non ha titoli universitari, il loro indice di disoccupazione è doppio dei bianchi e costituiscono il 40% delle persone in carcere. Secondo uno studio recente, gli afroamericani hanno una probabilità 2,5 volte maggiore dei bianchi di essere uccisi dalla polizia. Il movimento Black Lives Matter (Blm), nato nel 2013 in reazione all’assoluzione del suprematista bianco che uccise l’adolescente afroamericano disarmato Trayon Martin, si è diffuso globalmente dopo l’omicidio di George Floyd il 25 maggio 2020. Blm organizza azioni di disobbedienza civile nonviolenta per protestare contro la brutalità della polizia verso gli afroamericani, contro la disuguaglianza nel sistema giuridico statunitense* e la “profilazione razziale”: chi ha tratti fisici latini o afroamericani incorre maggiormente nei controlli della polizia stradale o nella richiesta di giustificare la propria presenza in un quartiere ricco.

* Il sistema giuridico, a parità di crimine, riserva trattamento diverso a persone di “razza” diversa: se una vittima di omicidio è “bianca”, la sentenza più probabile per l’omicida è la condanna a morte, mentre se la vittima è afroamericana, la sentenza più probabile è l’ergastolo. Dal 1976 sono state eseguite condanne a morte di 21 imputati bianchi le cui vittime erano afroamericane e di 295 imputati afroamericani le cui vittime erano bianche.

Last modified on Venerdì, 02 Ottobre 2020 14:29

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