Ogni anno dal 1° settembre al 4 ottobre il mondo si prende “Tempo per il creato”.
Ogni 4 anni, sempre in questi giorni, si svolge il Congresso mondiale per la conservazione della biodiversità (Iunc): una grande conferenza a cui partecipano più di mille organizzazioni governative e della società civile unite da un solo obiettivo: proteggere il milione di specie minacciate dalle azioni umane. Proprio sabato scordo durante il congresso è stata aggiornata la Lista rossa.
L’evento, ricco di appuntamenti e punti nell’ordine del giorno, prevedeva anche l’elezione del consiglio e degli organismi direttivi della Iunc, attraverso il quale l’assemblea raccoglie raccomandazioni e indicazioni operative per la conservazione della natura, indirizzate alle istituzioni internazionali, ai governi e ai policy makers; con particolare attenzione allo svolgimento della Conferenza ONU sul clima - COP 26 - che si terrà ai primi di novembre.
Alla vigilia del congresso però, sempre a Marsiglia, un gruppo di ong ha organizzato un contro-congresso battezzato “La nostra terra, la nostra natura”, promosso dall’organizzazione non governativa Survival International per denunciare il fatto che l’intero congresso si basi su una percezione distorta della natura, che affonda le sue radici nella cultura occidentale.
Principalmente queste organizzazioni si schierano contro la campagna “30×30”, che punta ad aumentare le aree protette nel mondo spostandone gli abitanti in nome della necessità di “conservare la natura”.
Una coalizione di gruppi indigeni e comunità locali ha chiesto che l’accordo si spinga oltre, fino a proteggere almeno metà della Terra, perché un terzo del pianeta non è sufficiente per preservare la biodiversità mondiale e immagazzinare abbastanza CO2, per via naturale, in modo da rallentare il riscaldamento globale. La Dichiarazione congiunta dei popoli indigeni, redatta due anni fa, lo mette nero su bianco.
Ma il congresso della Iunc e i governi sembrano dimenticare che almeno il 50% della terra del mondo è gestita collettivamente dalle popolazioni indigene e dalle comunità locali, ad esempio nella difesa delle foreste e dunque nella tutela della biodiversità. Per questo - e per molti altri motivi e diritti - le popolazioni indigene non possono essere spostate dalla propria terra. E per questo al contro-congresso è stata data la parola soprattutto ai rappresentanti delle popolazioni autoctone arrivati da 18 nazioni con prove e testimonianze di come, in alcuni casi, sotto la bandiera della protezione della natura siano state commesse “atrocità”. Tra le altre, quella di allontanare gli indigeni dalle loro terre, dalle loro foreste, dai loro luoghi sacri. Per fermare questi allontanamenti senza senso c’è anche una petizione.
Le popolazioni indigene sono fondamentali per costruire un mondo post-pandemico più sostenibile. Ed è fondamentale che le persone che vivono in aree di alta biodiversità abbiano il diritto di gestirle. Un modello da seguire è la Riserva della Biosfera Maya, in Guatemala, un territorio di due milioni di ettari gestito da trent’anni dalle comunità locali. Ora vi prosperano giaguari, scimmie e 535 specie di farfalle. Ora, lì, ognuno ha la sua casa.