Se da una parte in tutte le religioni ritroviamo messaggi e testimonianze profetiche di pace, dall’altra riscontriamo segni molto ambigui di complicità con la violenza.
Da un punto di vista filosofico e culturale questo legame storico tra religioni e violenza ripropone come centrale il tema della verità.
Religioni e verità
Tutte le religioni si dicono portatrici di “verità”. Ma quale? La verità è unica o molteplice? È esclusiva o accogliente? È soggettiva o oggettiva? Qual è il concetto di verità che ritroviamo nelle varie religioni e in particolare nelle tre grandi religioni monoteiste: ebraismo, cristianesimo e islam?
Se le analizziamo anche solo superficialmente, ognuna ha sempre ritenuto di non essere una religione tra le altre: in fondo, ha sempre preteso, e forse pretende ancora, di possedere l’esclusiva della verità. Forse questo è uno dei motivi principali di tante guerre “sante” e “giuste”: la “verità religiosa” non si discute, anzi, va difesa a oltranza e propagata.
Limitandoci al cristianesimo, le conseguenze storiche di questa idea di verità sono state drammatiche: processi, condanne, roghi e guerre. Le crociate non furono un episodio accidentale, perché la violenza era ritenuta necessaria per combattere l’errore.
Cristianesimo e filosofia greca
Da dove nasce questa pretesa di assolutezza e di monopolio esclusivo della verità?
Le sue radici si rifanno a contenuti di carattere prettamente religioso, ma anche a motivazioni storico-culturali.
Tutte e tre le grandi religioni monoteiste si rifanno alla unicità del Dio di Abramo che si consolida nel patto tra Jhwh e Mosè: «Non avrai altro Dio all’infuori di me».
Ma la pretesa di assolutezza si lega anche alle rispettive culture, alle loro tradizioni, ai loro vissuti storici; per quanto riguarda il cristianesimo, si lega alle radici filosofiche del concetto di verità, amalgamato e confuso con la metafisica greca, per la quale la verità è essenzialmente “conoscenza vera”: io sono nel vero quando la mia mente “rispecchia” in maniera adeguata ciò che sta fuori di me.
Per Tommaso d’Aquino la verità è adeguazione dell’intelletto alla cosa, e con Cartesio e l’Illuminismo essa diventa “idea chiara e distinta”, vera o falsa. Non ammette sfumature.
Su questo concetto si è costruita per secoli buona parte della cultura occidentale: una verità che rientra nella grande categoria della cultura dell’avere, della proprietà: la verità la si “ha” come la casa, la macchina, gli oggetti.
Cammino condiviso
Con Kant, prima, e Nietzsche e Heidegger, poi, la verità diventa piuttosto un cammino, una ricerca continua attraverso l’incontro, la critica e l’argomentazione. È un processo che accade nel dialogo tra persone, come sottolineato anche da papa Francesco, perché il Dio di Gesù è essenzialmente relazione, è un Dio trinitario.
La verità diventa evento di comunicazione: accade se l’io non resta chiuso in se stesso, ma si apre al tu in un dialogo che non è chiacchiera ma coinvolgimento profondo nella ricerca comune di un “senso” che va sempre “oltre” ed è più grande di noi, nella pluralità dei cammini, delle culture, delle fedi.
Non è relativismo, in cui ognuno si tiene la propria verità: le proprie opinioni entrano in discussione e confronto con altre, perché la verità accade nel dialogo; non è assoluta, ma sempre rivedibile e aperta a nuovi contenuti.
La verità “nomade”
Parecchi pensatori di origine ebraica, come Buber, Lévinas, Jonas e Rosenweig, hanno richiamato le radici ebraiche della cultura occidentale: le pagine bibliche, da Abramo a Gesù, sono racconti di viaggi dove la verità è interpretata come un “esodo” continuo.