Tutto è interconnesso. Questa è la convinzione di fondo che emerge dalla lettura dell’enciclica Laudato si’. La stessa convinzione può nascere in noi sotto una volta stellata, o camminando tra i campi di grano all’inizio dell’estate, o quando un tramonto rosa e arancio ci sorprende sulla via verso casa al termine di una lunga giornata di lavoro. La stessa convinzione – abbiamo pensato – può farsi strada in noi anche se ci viene raccontata, cantata, rappresentata. Ecco perché noi giovani del Centro missionario di Modena abbiamo iniziato a pensare allo spettacolo Tudo está interligado (Tutto è connesso), che ha preso forma ed è andato in scena a fine novembre 2021.
L’idea era nata l’anno precedente, alla fine dell’estate: un gruppo ristretto di noi si trovava sul nostro Appennino per riflettere proprio su queste tematiche, attraverso un dialogo tra la Laudato si’ e le realtà del territorio. Ricordo che era spuntato il desiderio di fare qualcosa, impegnarci per un futuro possibile e diverso da quello che sembra l’esito ormai scontato. Ma in che modo?
Con uno sguardo “altro”
Forse – ci siamo detti – si deve ripartire da uno sguardo diverso sulla realtà. Forse è il momento di tornare a guardare il creato con la meraviglia che ci brilla negli occhi. Forse oggi, con le parole di Mariangela Gualtieri, è «il tempo della cura». Con questa convinzione, ci è sembrato che una forma più artistica di riflessione centrasse meglio l’obiettivo. Da qui è nata la voglia di mettere insieme menti, mani e cuori, e provare a costruire uno spettacolo.
Approccio inclusivo
Presa la decisione, abbiamo aperto il cantiere dei lavori. Per la verità non eravamo del tutto nuovi alla materia, perché qualche anno fa avevamo fatto qualcosa di analogo per raccontare la nostra breve esperienza di missione in Ciad. Si tratta sempre di armonizzare insieme i carismi di ciascuno: chi ama scrivere, chi cantare, chi recitare, chi suonare, chi danzare. C’è posto per tutti e tutte.
Questa deve rimanere la scelta di fondo del nostro modo di lavorare insieme. È meglio uno spettacolo in cui il processo è stato pienamente condiviso che non una recita formalmente perfetta ma per pochi eletti. Stabilito il metodo di lavoro, abbiamo dovuto decidere come strutturare il tutto, nell’alternanza di testi e musica.
Alla fine la scelta è ricaduta sulla lettera del Papa per la Giornata mondiale di preghiera per la Cura del Creato 2020, a cinque anni dalla pubblicazione della Laudato si’. Quello che viviamo è un «tempo per ricordare, per ritornare, per riposare, per riparare, per rallegrarsi». Lo spettacolo ha ritrovato in questi cinque verbi il suo scheletro fondamentale, articolandosi così in altrettanti momenti.
Da lì in poi, non è stato difficile colorare questi momenti con tonalità diverse, dal sogno di Dio alla terribile realtà del disastro ecologico, dalla cura all’indifferenza spietata, dalla calma al tempo strappato, dalla consapevolezza di quello che accade all’invito a rallentare.
La creazione prende forma…
Le parole – nostre o prese in prestito da altri – hanno riempito qua e là gli spazi vuoti, ma non tutti. Il filo rosso che teneva insieme i cinque momenti è stato il canone Tudo está interligado, nato in occasione del Sinodo per l’Amazzonia. Lo spettacolo così si è aperto e così si è concluso, cantando l’interconnessione di tutto, come dentro un’unica sinfonia che racconta l’avventura delle donne e degli uomini nella loro Casa comune che Dio ha loro affidato.
Si inizia nel buio. Al centro della scena, una tavola vuota. Con il capo adagiato sulla tavola, Madre Terra, prima tra le creature, riposa. Poi il racconto inizia, e ogni giorno una candela si accende, a opera creata si aggiunge opera creata, a melodia si contrappunta melodia. La tavola comincia a popolarsi, tutte le genti vi trovano posto, assieme ai loro racconti, le cui origini si perdono nel sogno.
… e chiede cura
Dall’armonia iniziale qualcosa inizia a incrinarsi, fino a che, in modo sistematico e inesorabile, tutto è travolto dal caos. La nostra Terra è strattonata, depredata, spinta da una parte all’altra del palco, fino a cadere, tramortita, tra musiche sempre più dissonanti. È l’urlo al contempo lancinante e silenzioso della nostra Casa comune, mentre l’umanità rimane indifferente.
Un urlo che si sente e contemporaneamente si può ignorare. O – forse – che si “vuole” ignorare. Nell’ultima parte dello spettacolo, si prova a cantare, prima sottovoce poi a pieni polmoni, l’alternativa: la scelta di prendersi cura. È una scelta possibile? Noi crediamo di sì. La cura è, anzi, l’unica scelta possibile. Dobbiamo ripartire proprio da lì. Con le parole di Mariangela Gualtieri in Adesso.
Noi, solchi aperti
Questo è anche quello che abbiamo provato a lasciare al pubblico: l’alternativa offerta dalla cura. Non come una verità scolpita una volta per sempre nella mente, ma come un piccolo seme che, se coltivato, potrà portare frutto. Chissà come, chissà quando.
Forse non siamo riusciti a cambiare il cuore di nessuno, forse neanche il nostro. Ma – di questo sono certo – quel seme abbiamo provato a buttarlo, come meglio abbiamo potuto.
Il nostro compito di esseri umani non è quello delle gesta eroiche, nemmeno in questo caso. Io spero solo che riusciamo a divenire solchi aperti, disponibili ad accogliere, capaci di custodire, pronti a far germogliare.
Tutto è interconnesso. Non sempre ce ne accorgiamo. Ma se rimaniamo solchi aperti, letti di semina, prima o poi questa verità fragile, che ci cantano le stelle, che ci raccontano le spighe all’inizio dell’estate, che ci mostrano le nubi rosate e arancioni del tramonto, ecco, questa verità metterà radici in noi.
E scopriremo, alla fine, che tutto intorno è cura.