Anche se don Milani non ha scritto nessun trattato filosofico sul “linguaggio”, possiamo considerare don Lorenzo Milani uno dei più grandi maestri della parola del Novecento.
«Cosa è – si chiede – che divide i ricchi dai poveri?». Per don Lorenzo è la parola. In una lettera del 20 maggio 1956 scriveva: «Ciò che manca ai miei è (…) il dominio della parola».
La divisione sta nel fatto che il contadino e l’operaio conoscono a malapena un migliaio di parole, mentre l’avvocato, il prete, il medico, il laureato, chi ha potuto studiare, conosce tra i quattro e i cinquemila vocaboli.
Parola e potere
Chi conosce più parole ha uno strumento in più, che spesso si traduce in “potere”.
Nella famosa Lettera a una professoressa, che può essere considerata un inno al linguaggio e all’arte dello scrivere, i ragazzi di Barbiana dicono: «… è solo la lingua che fa eguali. Eguale è chi sa esprimersi e intende l’espressione altrui. Che sia ricco o povero importa meno. Basta che parli».
Tutta la Lettera è una denuncia di un tipo di scuola che, invece di formare, emargina e divide. E per don Milani ciò che emargina è soprattutto la parola. Chi sa poche parole sarà sempre imbrogliato da chi ne sa molte.
L’obiettivo principale della sua missione di prete e di maestro è quello di «dare la parola a coloro che ne sono privi e dare la parola alle coscienze che l’hanno persa». Dedica tutta la sua vita ad insegnare la parola.
I documenti e i testi di storia sono stati scritti dai vincitori, dai potenti, dagli intellettuali al servizio del potere. I più deboli e i più poveri sono stati esclusi.
In che modo dare la parola? Attraverso la scuola. La prima pastorale di don Milani è la
scuola. Niente calcetti. Niente ping pong. Niente sale giochi per i giovani.
Quale scuola?
Scuola a tempo pieno per tutto il tempo dell’anno. Niente vacanze, niente divertimenti. Nella sua scuola non si boccia, ma si lavora sodo.
Quando dal suo vescovo sarà mandato in esilio a Barbiana, aprirà una scuola per “dare la parola” ai quei ragazzi figli di contadini, spesso considerati “ignoranti” e quindi “bocciati”, rifiutati dalla scuola. La scuola è il luogo rivoluzionario per eccellenza: dà ai poveri dignità, li rende protagonisti, li fa crescere, li rende liberi e consapevoli. Perché Barbiana è diventata il simbolo della rivoluzione della scuola italiana?
La scuola non deve essere selettiva. Non deve nemmeno essere permissiva.
La scuola deve educare all’impegno politico e sociale. Senza essere subalterna a nessuno. Deve essere esigente, severa, impegnata. Suo compito è eliminare le differenze.
Ai suoi ragazzi don Milani insegnava: «Le frontiere sono concetti, non esistono».
Uno dei suoi allievi, Francuccio Gesualdi, così sintetizza che cosa era la scuola di Barbiana: «Era scuola di scienza e di lingua, di pensiero e di vita, di denuncia e di coerenza. Il suo obiettivo era di fare di noi degli uomini liberi, capaci di capire la realtà, di difendersi, di partecipare, di pensare, di scegliere.
Il suo insegnamento era di usare il sapere; non per fare carriera, ma per combattere a fianco di chi è oppresso ed emarginato».
Si andava a scuola 365 giorni all’anno. Tanto quanto lavorano i contadini. Al centro di tutto stava la parola. Ogni parola nuova veniva approfondita in tutti i suoi significati etimologici. Dalla sua origine alla sua storia.
I due testi più importanti erano il Vangelo e la Costituzione italiana.
Per don Milani, per formare un vero cittadino serve un libro: la Costituzione. Ma per formare una persona serve anche il Vangelo. La Costituzione è la Carta dei diritti, dei doveri, delle leggi per costruire un mondo più giusto. Il Vangelo non è un testo di religione, ma una scuola di vita, una profezia.
Nella famosa Lettera ai giudici sull’obiezione di coscienza, don Milani esprime così la sua concezione del mondo: «Se voi avete il diritto di dividere il mondo in italiani e stranieri allora vi dirò che, nel vostro senso, io non ho Patria e reclamo il diritto di dividere il mondo in diseredati e oppressi da un lato, privilegiati e oppressori dall’altro».