È stato solo l’ultimo in ordine di tempo degli impegni presi e traditi dall’autoproclamato Emirato islamico dell’Afghanistan, guidato dai talebani, che aveva annunciato la riapertura di tutte le scuole nel Paese. E invece no, la possibilità di frequentare le scuole secondarie di secondo grado per le giovani afghane è l’ennesima opportunità negata. Prima ancora era stato deciso che le donne che si spostano oltre i 72 chilometri devono essere accompagnate da un uomo della famiglia e gli autisti non possono accettare sui loro veicoli quelle che non indossano il velo islamico. I loro visi poi sono scomparsi dai manifesti pubblicitari.
Nel Paese oggi 14 milioni di bambini lottano contro fame, malattie e sfruttamento. I genitori sono costretti a fare scelte drastiche per sopravvivere, come ritirare i figli da scuola e mandarli a lavorare, venderli e, nel caso delle femmine, farle sposare precocemente. 22 milioni di persone necessitano di aiuto umanitario. Le donne sono una risorsa del Paese che il governo non vuole vedere. E dallo scorso 15 agosto le sta facendo nascondere o scappare.
Nel documentario “Noi donne afghane” prodotto dalla 3D Produzioni in collaborazione con la rete solidale "Le donne per le donne" e l'associazione "Chiamale Storie”, si racconta la grandezza delle donne afghane (a Milano alla Fondazione Feltrinelli il 2 aprile alle 18,30). A firmare il soggetto è Didi Gnocchi, mentre la sceneggiatura e la regia sono delle giornaliste Sabina Fedeli e Anna Migotto. Otto le donne protagoniste: Roya Heydari, la fotografa; Sahraa Karimi, regista; Zarifa Ghafari, sindaca; Samira Asghari, sportiva; Mahbouba Seraj giornalista e attivista; l’imprenditrice Zahra Hamadi; l’educatrice Pashtana Durrani e l’attivista Amina.
Otto donne, scomode al regime talebano, che per salvarsi la vita sono state costrette a fuggire. «Il documentario», spiega Sabina Fedeli, «è incentrato sui diritti cancellati delle donne. Tutte donne che nel Paese si impegnavo nella costruzione di un futuro migliore».
«Ci siamo concentrate sulle donne», dice Anna Anna Migotto, «perché dopo le immagini dello scorso 15 agosto sapevamo, memori dell’esperienza del 1996, che loro sarebbero state tra le vittime più colpite. Che avremmo visto ripetersi la stessa storia. Che sarebbe stato messo in discussione per le ragazze il diritto all’educazione. E infatti i talebani avevano “promesso” che entro il 21 marzo avrebbero riaperto le scuole, e invece le ragazze che si sono presentate sono state rispedite indietro».
Le protagoniste del documentario sono state scelte perché «rappresentavano la punta di diamante della società afghana sulle battaglie e sui diritti per le donne. Erano state, prima dell'arrivo dei talebani, motore trainante della società e del percorso per la sua democratizzazione».
“I talebani hanno paura delle donne”, dice la regista Sahraa Karimi nel documentario. “Ce ne siamo andate perché la nostra professione non è accettabile per i talebani, il nostro nome era nella lista nera. Noi donne afghane abbiamo raggiunto grandi risultati per l’Afghanistan, in nome dell’Afghanistan. Abbiamo alzato la bandiera del Paese sui grandi palcoscenici internazionali. Ma ora i talebani vogliono mettere a tacere questa parte importante della società perché hanno paura della donna che sa come formulare i suoi pensieri e come scegliere il suo destino”.
«In Afghanistan tutto sta crollando», spiega Migotto. «250 teste giornalistiche sono state chiuse e quelle rimaste aperte si autocensurano. I centri di violenza sono stati chiusi, aumentano i matrimoni precoci, la gente non sa letteralmente come sfamarsi. È un Paese che sembra ormai essere fuori i radar internazionali. È fondamentale adesso sbloccare gli aiuti umanitari».