Eppure nella nuova legge battezzata «codice rosso», che pur condivisibilmente introduce una autonoma fattispecie di reato per questo tipo di violazione, c’è un baco che, alla prova del primo mese di applicazione, ne svuota l’efficacia pratica: perché rende impossibile arrestare in flagranza di (nuovo) reato chi venga sorpreso mentre, in violazione del precedente ordine del giudice, sta avvicinandosi di nuovo alla donna maltrattata o stalkizzata.
La legge in questione, la n.69 del 19 luglio 2019, di iniziativa governativa, si intitola «Modifiche al codice penale, al codice di procedura penale e altre disposizioni in materia di tutela delle vittime di violenza domestica e di genere», ma i suoi fautori — il ministro della Giustizia (Alfonso Bonafede) e l’ex ministro della Funzione Pubblica (l’avvocato Giulia Bongiorno) — l’hanno comunicata con l’etichetta «codice rosso» per rivendicare l’intenzione di favorire un percorso prioritario di trattazione di questi procedimenti a tutela delle vittime. In vigore dal 9 agosto, sinora molti magistrati hanno abbondantemente additato il corto circuito, ai limiti del boomerang organizzativo rispetto alle intenzioni legislative di ridurre o se possibile eliminare i tempi morti delle indagini, determinato dall’ingorgo, durante i turni quotidiani delle Procure, di molte decine di segnalazioni non distinte nel loro contesto e non filtrate nella loro gravità, che però la legge obbliga la polizia giudiziaria a «riferire immediatamente al pubblico ministero anche in forma orale», e il pm a trattare assumendo «entro 3 giorni» informazioni dalla persona offesa o da chi ha denunciato i fatti.
Un punto invece rimasto sinora in ombra è quello che sta emergendo nei casi in cui inizia a essere applicato il nuovo articolo 387 bis che punisce, con la pena da 6 mesi a 3 anni, «chiunque violi dei provvedimenti (ai quali sia stato sottoposto dal giudice) di allontanamento dalla casa familiare e il divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa». In effetti, sino a prima della nuova legge, l’inosservanza da parte dell’indagato degli obblighi o dei divieti impartitigli dal giudice non solo non era sanzionata in sé. Solo che ora l’introduzione di un nuovo e autonomo reato (art. 387 bis) ha risolto il problema solo a parole: il legislatore ha infatti scelto di fissare la pena da un minimo di 6 mesi a un massimo di 3 anni, il che impedisce di arrestare subito in flagranza chi stia avvicinandosi di nuovo (in violazione del precedente ordine giudiziario di allontanamento o divieto di avvicinamento) alla donna in pericolo. Perché?
L’arresto di una persona in flagranza di reato non avviene per atto motivato di un giudice su richiesta del pm, ma per iniziativa della polizia in via provvisoria mentre il reato è in corso, con successivi obblighi di comunicazione al giudice entro 48 ore e sua convalida entro altre 48 ore. È una eccezione, perciò il sistema processuale lo ammette in via generale soltanto per reati la cui pena massima sia «superiore a 3 anni»: e invece il nuovo reato ha una pena massima «sino a 3 anni». Nel sistema generale esiste una possibilità di deroga, nel senso che l’arresto in flagrante è consentito in via facoltativa anche per reati con pene inferiori, a patto però che siano elencati nel secondo comma dell’articolo 381 del codice di procedura: ma il nuovo reato non è in questo catalogo. E si può arrestare in flagranza anche per reati espressamente menzionati (come l’evasione) dall’art. 3 del decreto legge 152 del 1991: ma nemmeno qui è stato inserito il nuovo reato.
Il risultato finale concreto è che, mentre chi evada dagli arresti domiciliari, o chi rientri illegalmente in Italia dopo essere stato espulso, può essere arrestato in flagranza di reato, questo non è possibile se un indagato viola l’ordine del giudice di allontanarsi o non avvicinarsi alla vittima: al pm non resta che l’ordinaria strada del chiedere al gip l’aggravamento della misura cautelare violata, e cioè l’arresto. Ma questo presuppone una trafila (comunicazione scritta di notizia di reato dalla polizia al pm di turno, ricezione, iscrizione, trasmissione dal pm di turno al pm titolare del fascicolo nel quale era stata disposta la misura violata, valutazione del pm, richiesta di arresto formulata dal pm, trasmissione al gip, valutazione, emissione della misura, trasmissione alle forze dell’ordine affinché la mettano in atto, esecuzione dell’arresto) che nella concreta quotidianità degli uffici giudiziari comporta per forza almeno alcuni giorni di tempo. Potenzialmente incompatibili con la dinamica degli eventi.
La questione era stata additata — inutilmente — già anche da un seminario della Scuola Superiore della Magistratura il 15 maggio, a cavallo dell’approvazione tra i due rami del Parlamento, e del resto anche la deputata M5S Stefania Ascari, che è stata relatrice del provvedimento alla Camera, ora conferma: «È un problema che esiste. Nel mio testo era presente la norma, ma poi su questo punto non si è raggiunta in Parlamento una condivisione. Ora auspico, lo dico a titolo personale, che possa intervenire un ripensamento, magari insieme ad altre messe a punto che nel testo si dovessero rendere opportune».