Jessie. Il sogno di tornare a casa e ricominciare
«Lavoravo in un’industria chimica in Uganda. Dopo essermi ammalata a causa di un’allergia ai materiali che utilizzavamo, dovetti lasciare il lavoro. Comprai un piccolo chiosco per vendere cibo ai passanti. Tutto andava bene, fino a quando venni truffata da un’agenzia che mi offrì di lavorare in Medio Oriente. Credevo di aver avuto una grande opportunità e invece mi ritrovai in un contesto di schiavitù domestica. Lavoravo senza sosta e non ricevevo né cibo né compenso. Non pensavo ad altro che a scappare da quella terribile situazione. Durante un primo tentativo di fuga venni violentata da un taxista a cui avevo chiesto aiuto. Ma la disperazione mi portò nuovamente a fuggire e per fortuna l’altro taxista mi accompagnò in ambasciata. Fu l’inizio di una nuova vita: arrivai in una casa di religiose che si presero cura di me, dandomi cibo, vestiti, dignità. Un giorno chiesi alle sorelle la possibilità di poter rientrare a casa: spesso pensavo alla felicità che mi dava quel piccolo chiosco di cui solo pochi anni prima ero proprietaria. Le suore mi aiutarono a ottenere i documenti e a prendere contatti con il mio Paese d’origine. Oggi vivo in Uganda e le religiose continuano ad aiutarmi nel mio percorso di reinserimento lavorativo e sociale».
Mihaela. Dopo la violenza studia legge per aiutare altre donne
«Avevo 19 anni quando, finito il liceo in Romania, decisi di andare in Germania a lavorare per tre mesi da una “famiglia seria”. Così l’aveva definita la mia amica Amalia. Con il guadagno mi sarei pagata l’università. Ero già stata accettata dalla facoltà di Scienze politiche. Una volta arrivata in quella casa mi accorsi quasi subito che qualcosa non andava: non c’erano giocattoli, eppure Amalia aveva detto che la famiglia aveva tre figli.