A distanza di un anno dall’entrata in vigore della Legge 69/2019, il cosiddetto ‘Codice rosso’, strumento introdotto per contrastare la violenza di genere, si tirano le somme di quello che ha funzionato e di quello che invece c’è ancora da fare sul tema. “È importante ribadire che il luogo della lotta reale alla violenza di genere non è l’aula di giustizia, ma questo non vuol dire che non debba essere un luogo in cui le donne possano trovare fiducia e sostegno”. Esordisce così, ospite del ‘Festival della violenza illustrata’ di Bologna, Paola di Nicola, magistrata e scrittrice marchigiana che da anni si batte contro i pregiudizi e gli stereotipi legati all’ambiente delle toghe.
Il problema è la struttura sociale
“Avevamo un efficace apparato normativo anche prima dell’introduzione del ‘Codice rosso’- spiega l’avvocata-. Quest’ultimo ha sicuramente accelerato a livello pratico tutto l’iter di presa in carico di un caso di violenza, comprese le indagini preliminari, ma il grosso problema nel nostro Paese rimane un altro”.
Quale? “Il tarlo più grave e preoccupante è che la struttura sociale intorno a cui gira il tema della violenza sulle donne, e che è composta perlopiù da Forze dell’ordine, testimoni, avvocati e magistrati, è un sub-strato che è ancora caratterizzato da forti pregiudizi e stereotipi, di cui purtroppo non possiamo negare l’esistenza”. Per fare esempi pratici, continua Di Nicola, “in una sentenza dello scorso anno emessa dal Tribunale di Genova su un caso di femminicidio, si legge che ‘l’indole aggressiva fa sì che egli tenda a reagire in modo violento ai torti subiti’. Ecco - continua Di Nicola - in questa rappresentazione, emerge che la vittima è stata uccisa da un carattere violento, per via di un ‘raptus’ incontrollabile dell’uomo, e non per la sua volontà effettiva”.
Ma qual è il principale ‘errore’ della giustizia con cui le donne vittime di violenza devono fare i conti? “Quando sentiamo parlare di passione e gelosia - sottolinea Di Nicola - si avvicina la violenza all’amore, e questo, è uno dei più grandi errori che si possa fare, perché non si riconosce la relazione di potere che è presente in quel contesto familiare, relazione in cui un uomo punisce una donna per aver esercitato libertà che le spettano di diritto. Per questo - esorta Di Nicola - parole come gelosia, passione, tradimento, non dovrebbero essere scritte nelle sentenze, anche perché non sono presenti nel codice penale”.
Ma si può fare qualcosa per sensibilizzare gli addetti ai lavori? “Noi, purtroppo, come magistrati, assistenti sociali, medici, non abbiamo una formazione obbligatoria, se non autonoma, quando dobbiamo valutare se esiste o meno un caso di violenza sessuale - risponde Di Nicola - non conosciamo quali sono le possibili reazioni di una donna di fronte a uno stupro. So che all’estero, specialmente in ambienti universitari e Pronto soccorso, analizzano in dettaglio storie che stridono con il cosiddetto ‘mito dello stupro’; si tratta di un ‘modello standard’ secondo cui, la violenza sessuale avverrebbe di solito di notte, ad opera di uno sconosciuto (preferibilmente straniero), e ai danni di una bella donna. Sappiamo dalla realtà e dalle nostre esperienze che questi criteri non corrispondono al ‘mito'”.
Bisogna quindi “depurarci da stereotipi e pregiudizi e guardare ai fatti. Solo così, la donna può finalmente uscire dal circolo della violenza”. Anche per l’assessora alle Pari opportunità del Comune di Bologna, Susanna Zaccaria, “ogni sentenza che contenga dati discutibili, e che si concentri soltanto sulla vittima invece che sull’autore” è “di fatto un fallimento per tutti”.