I discorsi sono sempre gli stessi: tutto sommato, questa storia della subalternità femminile è stata gonfiata, almeno quanto quella del riscaldamento climatico o quella di un virus a gittata planetaria. A volte, sono addirittura le donne a farsi portavoce di questa forma di negazionismo sistemico, che abbraccia cioè tutti gli ambiti del vivere e del pensare, e che sembra essere l’ultima spiaggia di una libertà mai conquistata negli ambiti che contano davvero, ma concessa e solo per ciò che non conta granché. E fa proseliti chi dice che, in conformità con il monito paolino di Ef 5,21-23, le donne raggiungono la piena realizzazione di sé quando accettano la regola aurea della sottomissione al marito: una convinzione che, benché non riempia le piazze, penetra però capillarmente nel tessuto sociale ed ecclesiale. Mi domando come facciano i tanti no-Feminism a reggere ai reportage che, ormai da mesi, ci mettono davanti agli occhi e nel cuore le donne afghane, il loro coraggio pari almeno alla loro disperazione quando sfidano il sistema e occupano le piazze.
Il grido delle piazze
In realtà, negli ultimi mesi le “piazze delle donne” si sono riempite in molte città e molte volte: in Bielorussia, in Polonia, in Messico, in Turchia e anche in Italia, per dirne solo alcune. E dalle piazze piene di donne si è alzato il grido per la democrazia, unica condizione che può permettere di arrivare alla giustizia di genere. Un grido oggi più di paura che di speranza, che ha trovato eco forte e chiara anche in alcuni santuari della cultura come i festival cinematografici, in cui la voce delle donne è risuonata come segnale di un mondo che sta cambiando e che, quindi, può cambiare, ma anche come incitamento all’empowerment di tutte le donne. Perché se il mondo non cambia oggi, non cambia più. E il mondo non cambia finché non viene resa giustizia alle donne.
Violenza di Stato
L’Afghanistan non è soltanto un Paese dell’Asia meridionale dove più di 40 milioni di persone vivono su un territorio grande più del doppio dell’Italia; è una Repubblica islamica in cui alcuni maschi si sono eretti a guardiani di una teocrazia che consente agli uomini di stuprare e uccidere le donne su scala nazionale, non per malsana volontà di un singolo individuo violento, ma per una violenza di Stato che il ricorso alla religione rende ancora più feroce e sinistra.
Uomini che odiano le donne per statuto, per tradizione, per cultura, per costume, per religione: questi sono coloro a cui le grandi democrazie occidentali hanno servito su un piatto d’argento il governo di un Paese martoriato e ancora ben lontano dalla scoperta del pluralismo politico e religioso, nel quale però perfino le donne cominciavano a vedere barlumi di una vita diversa fatta di istruzione, salute, lavoro, partecipazione politica, diritti. Che su quello stesso piatto d’argento ci fosse, come sempre, il corpo delle donne, quello fisico di ciascuna di loro e quello collettivo di un soggetto politico che si andava formando, non ha avuto alcun valore per i maschi alfa delle grandi democrazie occidentali che oggi si riempiono la bocca dei diritti delle donne.
Patriarcato e totalitarismi
In fondo, lo spirito democratico dei maschi alfa vacilla se devono scegliere, nelle camere da letto come nei parlamenti, il criterio politico dell’eguaglianza di genere: non ce la fanno proprio a capire che la prima forma di democrazia è quella tra i sessi. Noi credenti nel Dio biblico diremmo che la prima forma di democrazia è quella creaturale, quella inscritta nel segreto stesso della creazione e che andiamo scoprendo solo lentamente pagandola a caro prezzo.
Lo sappiamo bene, dato che lo sperimentiamo ogni giorno: fino a oggi il patriarcato ha solo subito le spinte del femminismo, ma non ne ha metabolizzato appieno le istanze. Ha tirato su il ponte levatoio e si è rinchiuso dentro le sue mura di cinta, sicuro che, quando sarà passata la temperie, tutto tornerà come prima. Sperano che l’Occidente si sia solo distratto, si sia fatto prendere la mano dalla dissoluzione delle sue tradizioni, ma sono convinti – e forse a ragione – che in molti si premureranno di rimettere le cose a posto. Non soffia forse in questa direzione il vento dei nuovi totalitarismi che mira a riaccendere quella brace sotto la cenere che non abbiamo mai saputo spegnere del tutto, anche perché è in grado di cambiare continuamente nome e divisa? E sappiamo bene che qualsiasi totalitarismo si costruisce sul corpo delle donne.
Disarmare...
Non potevamo non sapere, del resto, che la democrazia “esportata” con le armi non produce altro che ingiustizia e violenza. Chi, in Afghanistan, ha cominciato a scrivere le pagine di una nuova storia di libertà e di dignità anche per le donne – anzi, soprattutto per le donne – lo ha fatto senza imbracciare le armi. Sono le infinite ong che in questi vent’anni hanno acceso la speranza che un non-popolo potesse finalmente acquisire la dignità di popolo. Sono rimaste le uniche disarmate mentre le armi passavano di mano in mano, dai “liberatori” ai loro alleati e poi perfino ai loro nemici. Perché, in fondo, ciò che conta davvero è che le multinazionali delle armi continuino a spartirsi il mercato.
Le donne scese in piazza a Kabul e in tutto l’Afghanistan hanno imbracciato un’unica arma, la loro voce, e indossato un’unica divisa, il loro coraggio. Nessuno ci dice quali prezzi hanno pagato e stanno pagando perché, dopo i primi giorni di animata partecipazione, l’opinione pubblica ha rubricato anche le donne afghane tra i mali endemici che affliggono molti Paesi del mondo.
… con l’azione di donne e uomini
Finché a difendere i diritti delle donne saranno solo le donne, finché i politici parleranno di loro come di un’altra parte dell’umanità, finché non si arriverà a capire che una donna stuprata non è un delitto contro le donne ma un delitto contro l’umanità, non ci sarà nessuna speranza di reale cambiamento. Il patriarcato starà chiuso nel suo castello in attesa di tempi migliori. Per questo, credo che un segnale di speranza grande che è venuto dall’Afghanistan sia stato lo sciopero indetto dagli studenti maschi che si sono rifiutati di tornare a scuola se con loro non tornano anche le loro compagne.
Oggi la piazza deve essere il luogo della forza delle donne; è lì che devono rendersi visibili da sole, è lì che devono alzare la voce perché nessun paternalismo, neppure politico, le salverà dal patriarcato. Ma ci sono spazi in cui sono solo i maschi che possono fare la differenza, senza imbracciare le armi, ma con la loro voce e il loro coraggio. Perché se i diritti delle donne vengono negati o calpestati, è l’umanità tutta che viene negata o calpestata. E lì, in quella lontana repubblica islamica dell’Asia meridionale si sta combattendo una battaglia epocale per tutta l’umanità.