La Repubblica democratica del Congo è un Paese ricco per pochi e impoverito da tanti: da decenni vive una crisi politica, sociale ed economica molto complessa. Le multinazionali hanno interessi strategici nel Kivu, ricco di coltan, cobalto e oro. Gruppi armati si contendono le terre e le risorse, infliggendo grandi sofferenze alla popolazione.
Da quattro anni mi reco come farmacista volontaria a Bukavu, e nel 2017 ho conosciuto un’organizzazione non governativa, Sad, fondata dal ginecologo Jeff Kakisingi, direttore sanitario dell’ospedale Saint Vincent. Aveva iniziato a visitare le donne nei villaggi più sperduti, prendendo con sé un ecografo, un generatore e delle strumentazioni mediche utili per effettuare consultazioni ginecologiche. Ben 450 ebbero accesso al suo servizio e quell’esperienza gli svelò che, accanto alla miseria e alla povertà, la violenza sessuale era una piaga devastante e molto diffusa, che segnava drammaticamente la vita delle donne.
A livello fisico, esse soffrivano traumi ginecologici e malattie sessualmente trasmesse, a livello psicologico, la difficoltà di accettare la violenza subita, con sensi di colpa e depressione, e, a livello sociale, l’abbandono da parte dei mariti. In alcuni villaggi venivano addirittura ghettizzate nella “casa delle donne violentate”.
AL LORO fianco
Quella scoperta indusse il dottor Kakisingi ad avviare una campagna di sensibilizzazione nei villaggi, affinché le vittime di violenza ed emarginazione non contribuissero a distruggere le proprie vite chiudendosi in sé stesse. Dal 2004 insegnò loro a condividere il dolore per “non morire dentro” e nel 2014, insieme a Julienne Mugoli, creò Sad, una ong “tutta africana”, che segue gratuitamente le vittime di stupro per un periodo da tre a sei mesi, con cure fisiche e psicologiche, fino al loro reinserimento sociale. Dall’inizio a oggi Sad ne ha fatte rivivere più di 300.
La struttura è essenziale: in un piccolo appezzamento di terra sono collocate due tende molto spaziose, che ospitano le donne per tutto il periodo della riabilitazione.
Esperienza indimenticabile
Nel 2017, in questo luogo ho incontrato persone ferite nel corpo e nell’anima, con occhi grandi bagnati di tristezza, comunque disponibili a un cenno di sorriso. Sedute una accanto all’altra, ci siamo guardate. Ho accarezzato le loro mani e tenuto fra le braccia alcuni dei loro bambini. Alcune di loro arrivano con i figli, spesso frutto della violenza subita. Non solo vengono rese schiave sessuali dalle bande armate, subendo atroci umiliazioni, si ritrovano anche a vivere gravidanze indesiderate: segno indelebile di un martirio o dono per ridare un senso alla propria vita?
Non ho risposta.
Dopo aver ricevuto le cure mediche essenziali, vengono seguite da un’équipe di psicologi e possono anche imparare varie attività lavorative: agro-pastorali, sartoria o produzione di sapone. Ciò agevola il loro reinserimento sociale.
Atelier speranza
L’Atelier Hope, ovvero “Atelier speranza”, è un piccolo negozio in una via trafficata di Bukavu. Quattro vecchie macchine da cucire, pareti adornate con poster di moda africana e tanti tessuti coloratissimi, ritagliati e stirati fino a divenire abiti da indossare. Un luogo di creatività.