Il Sinodo dei vescovi, o meglio il Sinodo delle Chiese (come ci suggerisce l’inizio del Documento preparatorio), è cominciato, e si sovrappone ad altri percorsi sinodali, alcuni già avviati e propositivi, come in Germania, altri più germinali e timidi, come in Italia. Comunque tutte le Chiese – molte a più livelli – si trovano davanti la sfida di tentare un modo di radunarsi che non sia solo un incontro programmatico, come i Convegni ecclesiali nella Chiesa italiana, ma che diventi uno spazio di confronto per osservare la realtà, ascoltare la Parola di Dio e discernere insieme che cosa lo Spirito dica oggi alle Chiese.
Per ascoltare questa voce occorre – così dalla più antica tradizione ecclesiale – che i credenti e le credenti radunati raggiungano un consenso che riveli il “soffiare dello Spirito” che spinge in una direzione: tale consenso sorge solo dall’ascolto reciproco e dalla disposizione di tutti e tutte a un’autentica conversione.
Quale partecipazione?
Da quanto detto è chiaro che l’ascolto della realtà, di Dio e delle persone, e la conversione, frutto di ogni ascolto reale, sono indispensabili perché si dia un evento sinodale. Poniamo allora la questione – e si tratta di una questione fondamentale perché il Sinodo sia realmente celebrato – della posizione delle donne nella Chiesa e nel Sinodo stesso. La pongo consapevole del percorso sinodale appena avviato e anche della diversità di impostazione di cammino nelle diverse Chiese; non pretendo dunque di indicare lo stato dell’arte dei percorsi e dei contenuti espressi, ma solo di tentare una riflessione più ampia su come la questione femminile possa e debba intrecciare quella sinodale.
La realtà delle nostre società ci dice che è finito il tempo in cui si poteva affermare che le donne non sono in grado di decidere per sé e per altri, che non sono adeguate a ruoli pubblici di guida e di parola significativa. È finito insomma il tempo della marginalizzazione, della sottomissione e della mortificazione delle donne, almeno nelle dichiarazioni di intenti, anche se poi stereotipi e resistenze si coalizzano per tenere in piedi strutture sociali che le opprimono. Possiamo dire che la Chiesa sia in ascolto di questa realtà, per esempio preoccupandosi (come accade nel Sinodo tedesco) che le donne non siano una minoranza nei sinodi e che abbiano una partecipazione effettiva (con il voto) alla pari dei maschi, ordinati o meno? Ma, ancora più a fondo, la Chiesa è disposta a porsi il problema della partecipazione delle donne?
Spesso, quando si pongono domande di questo tipo, che sottolineano la condizione di emarginazione femminile nella Chiesa, ci si sente rispondere che il problema in realtà non è la differenza fra maschi e femmine ma la struttura ancora troppo clericale: il problema sarebbe dunque l’adeguata partecipazione dei laici in generale, non delle donne.
Squilibrio evidente
Se ci mettiamo in ascolto della realtà ecclesiale, di ciò che vediamo sempre intorno a noi, ci accorgeremo però che, complice ma non certo unica responsabile anche l’esclusione delle donne da ogni forma ministeriale ordinata, i nostri ambienti non valorizzano le donne come gli uomini, né tendono a dare responsabilità e parola pubblica allo stesso modo.
Se a ciò si aggiunge che i ministri ordinati sono tutti maschi e che la struttura ancora clericale li mette al centro e al di sopra di tutto il vivere ecclesiale, è facile comprendere come e perché il vissuto ecclesiale non sia per nulla equo e paritario, contravvenendo a quanto il Vangelo stesso e le testimonianze delle antiche Chiese paoline ci insegnano.
Per ascoltare la realtà, Dio e gli altri (comprese le altre), occorre prendere consapevolezza di questo squilibrio, mentre invece tendiamo a negarlo o persino giustificarlo sostenendo che la marginalizzazione delle donne (che in realtà sarebbe il loro più pieno riconoscimento) viene dalla loro natura (che sarebbe dedita ad ambiti “privati”) e da Dio che le avrebbe volute così. Se non prendiamo consapevolezza delle discriminazioni pratiche e delle narrazioni stranianti sul femminile, il Sinodo sarà fortemente in pericolo, perché non riusciremo nemmeno a guardare la realtà interna alla Chiesa né a prendere sul serio la fatica che riguarda la stragrande maggioranza dei suoi membri, che sono appunto di sesso femminile.
Sarebbe auspicabile dunque che la riflessione sulla Chiesa sinodale si ponesse a tutti i livelli il problema di come le donne oggi vivono l’appartenenza ecclesiale e se questo, alla luce dell’evoluzione delle società umane e dei dati che ci vengono dallo studio della Scrittura e della tradizione, sia coerente con quella fraternità evangelica che la Chiesa pretende di vivere.
Potere di “censura”
Le discriminazioni iniziano a venire debellate quando vengono portate allo scoperto, denunciate e discusse. Fino a quel momento resistono, avviluppate alle istituzioni e alle logiche di potere, impedendo a chi subisce l’ingiustizia anche solo di dirla. Per le donne nella Chiesa questo accade ancora. Il Sinodo potrebbe essere il tempo favorevole perché tutto ciò volga al termine.
Ma chi ha il potere di mettere la questione femminile all’ordine del giorno? Le resistenze sono moltissime, perché la discussione potrebbe aprire a un vero e proprio sconvolgimento dell’attuale organizzazione dei rapporti ecclesiali, fondata – magari al di là di ogni intenzione – su una concreta e pervasiva discriminazione di genere. Che cosa possiamo fare, allora, se il tema non viene messo all’ordine del giorno, non viene discusso?
Nel Documento preparatorio, peraltro di grandissima levatura, la questione è solo enunciata (n. 7) e poi ritorna nella seconda delle domande finali, quella sull’ascolto. Appoggiandosi a questo si potrebbe allora pensare di sollevare il problema nei gruppi sinodali, in modo da cominciare a smascherare il sistema sessista che ancora resiste.
Far emergere il sommerso
Il problema è se i gruppi sinodali – e poi le assemblee sinodali, delle quali sappiamo ancora poco – vengono strutturati come luoghi di espressione in cui ciascuno possa dire la sua, che viene poi riportata accanto alle considerazioni degli altri nella sintesi finale, o come luoghi in cui elaborare un consenso (cioè in stile sinodale). In questo secondo caso il gruppo stesso dovrebbe decidere, dopo un primo giro di espressioni, di cosa parlare e, una volta definito l’argomento, discuterne: non semplicemente mettendo un’opinione accanto all’altra, ma confrontandosi fino a raggiungere una formulazione su cui tutti e tutte (o quasi) possano dirsi d’accordo e che possa essere proposta in ordine a una decisione da prendere.
Se si procedesse così, la questione femminile dovrebbe essere scelta dal gruppo come uno degli argomenti, e allo scopo si dovrebbero inevitabilmente confrontare posizioni diverse, resistenze, motivazioni. Inoltre, nell’avviare un confronto che offra soluzioni, si sarebbe costretti a esaminare la situazione e a considerare le scelte concretamente possibili in vista degli obbiettivi ecclesiali che si dovrebbero dichiarare. Insomma si dovrebbe fare un cammino sinodale e far emergere ciò che è sommerso: il sistema discriminante e non evangelico.