In anni più recenti lo stesso premio è stato assegnato ad Aung San Suu Kyi per il suo impegno a favore della democrazia e contro le atrocità commesse dai militari in Myanmar, un tempo nota come Birmania. Tuttavia, proprio negli ultimi due anni Aung, diventata dopo la liberazione prima ministro e poi consigliere di Stato, la massima autorità politica e morale del Paese, non ha mosso un dito contro la persecuzione della minoranza Rohingya.
Non mancano certo altri casi di Nobel per la pace dati a figure altrettanto discutibili. Se con la stessa faciloneria venissero premiati dei chimici o dei fisici, la sorpresa sarebbe generale. Viene allora il dubbio che anche il Comitato norvegese che sceglie chi premiare tra le tante candidature pervenute da tutto il mondo non abbia le idee troppo chiare. In effetti, definire che cosa sia la pace rimane ancora oggi una questione molto controversa.
Pace, ovvero…
Schematizzando, si possono ridurre a tre le teorie della pace e della guerra.
Vi sono anzitutto le spiegazioni darwiniane e psicoanalitiche, che considerano i conflitti come sfogo della naturale aggressività degli individui, dunque un dato permanente della storia umana, che si può tentare di controllare e limitare, ma non estirpare una volta per tutte. A questa categoria si possono assimilare anche quelle concezioni religiose che insistono sulla naturale malvagità dell’uomo, e da questa o dal peccato originale fanno discendere la violenza e quindi la guerra, che vengono viste come una componente strutturale che ha accompagnato fin dai primordi la nostra specie, a cominciare dalla lotta tra Caino e Abele.
Un secondo grande gruppo di teorie è quello formulato dalle grandi ideologie dell’Ottocento: il liberalismo, la democrazia, il socialismo. Per quanto spesso in conflitto tra di loro, esse vedono tutte nell’ordinamento interno degli Stati l’origine della guerra. L’affermazione universale del liberalismo, della democrazia o del socialismo avrebbe posto fine anche ai conflitti tra gli Stati. Purtroppo la storia si è incaricata di sbugiardare più volte questa convinzione, rivelandone il carattere illusorio.
Vi è, infine, una terza teoria, che attribuisce la bellicosità all’esistenza stessa di Stati sovrani. Alexander Hamilton, uno dei Padri fondatori degli Stati Uniti d’America, ha espresso questa convinzione con parole che meriterebbero di essere scolpite nel bronzo: «Sperare in una permanenza di armonia tra molti Stati indipendenti e slegati sarebbe trascurare il corso uniforme degli avvenimenti umani e andar contro l’esperienza accumulata dal tempo».
È stato però il grande filosofo tedesco Immanuel Kant a definire con assoluta precisione la pace e a distinguerla radicalmente dalla guerra. Già il titolo della sua opera del 1795 è indicativo: Per la pace perpetua. La pace, infatti, o è perpetua o non è.
Kant distingue tra pace e tregua: la prima è la condizione in cui la guerra risulta impossibile, la seconda una semplice pausa tra due guerre. Inevitabile concludere che nella storia dell’umanità vi sono state tregue più o meno lunghe; pace, mai.
Soprusi da arginare
Come impedire la naturale bellicosità tra gli Stati? Kant parte da una constatazione: mentre all’interno degli Stati i conflitti sono regolati e risolti dal diritto e le infrazioni sono punite dai tribunali, tra gli Stati permane ancora quella «selvaggia libertà» che una volta regnava tra gli individui e li costringeva a farsi giustizia da sé. Così accade che tra gli Stati sia la guerra a stabilire chi ha ragione e chi ha torto. Ancora oggi noi rimaniamo scandalizzati se una persona aggredisce un debole, a maggior ragione se si tratta di un bambino, mentre diamo quasi per scontato che gli Stati più forti si impongano sui più deboli anche con la forza. Si pensi, per non andare molto lontano, a come la Russia si è appropriata della Crimea con un colpo di mano militare.
Per realizzare la pace perpetua occorre allora sottomettere al diritto anche le controversie tra gli Stati attraverso una legge che sia al di sopra degli Stati e che venga fatta rispettare da un potere coercitivo. Non basta dunque il diritto internazionale, tipico delle tante alleanze e confederazioni che hanno accompagnato la storia moderna e contemporanea. I fallimenti prima della Società delle Nazioni e poi dell’Onu dovrebbero ricordarci questa amara verità.
Non conoscendo l’esperienza americana della divisione della sovranità tra vari livelli di governo, Kant teme la concentrazione di un potere enorme nelle mani di un governo mondiale che potrebbe conculcare la libertà sia delle persone che dei popoli.
Federazione, ovvero…
In America era nato uno Stato di Stati, la federazione o unione federale, con due livelli di governo coordinati e indipendenti, secondo la felice formula di Kenneth Wheare. Al posto della eccessiva concentrazione di potere temuta da Kant si era realizzata una maggiore suddivisione del potere: non solo su base funzionale (legislativo, esecutivo, giudiziario), ma anche su base territoriale (tra gli Stati e la Federazione).
In Europa sarà non a caso la dottrina sociale della Chiesa a formulare il criterio in base al quale distribuire il potere tra i diversi livelli di governo. È il famoso principio di sussidiarietà.