La pandemia è un portale Arundhati Roy
Martedì, 14 Aprile 2020 15:51

La pandemia è un portale

Chi può ormai usare il detto “essere virale” senza tremare un pochino? Chi può vedere ancora qualcosa -la maniglia di una porta, una confezione di cartone, una borsa di verdure – senza immaginare che pulluli di quelle invisibili, non-morte, inanimate masse cosparse di ventose allungate che aspettano solo di attaccarsi ai nostri polmoni?

Chi può pensare di baciare un estraneo, salire sull’autobus o mandare i propri figli a scuola senza sentire una vivida paura?

Chi può pensare ai piaceri quotidiani senza valutarne il rischio?

Chi fra di noi non è un epidemiologo improvvisato, un virologo, uno statistico o un profeta? Chi fra gli scienziati e fra i medici non sta pregando per un miracolo?

Quale prete – segretamente, quantomeno – non si sta sottomettendo alla scienza?

E anche mentre il virus si sta espandendo, chi non può emozionarsi per il gonfiarsi del cinguettare degli uccelli nelle città, per i pavoni che danzano sotto i semafori e per il silenzio nel cielo? Il numero dei casi di contagio nel mondo ha superato il milione questa settimana. Più di cinquantamila persone sono già morte. Le proiezioni suggeriscono che il numero crescerà fino a centinaia di migliaia, forse di più.

Il virus si è spostato liberamente lungo le tratte commerciali e i capitali internazionali, e la terribile malattia che ha portato sulla sua scia ha rinchiuso in casa le persone nei loro paesi, nelle loro città e nelle loro case. Ma al contrario del flusso di capitali, questo virus alimenta la proliferazione, non il profitto, ed ha quindi, inavvertitamente, almeno in parte, invertito la direzione del flusso.

Ha preso in giro il controllo dell’immigrazione, i controlli biometrici, la sorveglianza digitale e tutti gli altri tipi di analisi di dati, ed ha colpito in maniera più drastica – fino ad ora – le più ricche e potenti nazioni del mondo, portando il motore del capitalismo a bloccarsi con un forte scossone. Forse temporaneamente, ma abbastanza per farci esaminare le sue parti, farne una valutazione e decidere quali vogliamo aiutare a ripararsi, oppure a cosa guardare per un funzionamento migliore.

La classe dirigente che sta gestendo la pandemia si è affezionata al lessico di guerra. Non utilizzano nemmeno la guerra come una metafora, lo dicono letteralmente. Ma se fosse davvero una guerra, chi meglio degli USA sarebbe preparato a fronteggiarla?

Se non fossero guanti e mascherine ciò di cui necessitano i suoi soldati in prima linea, ma armi, bombe intelligenti, missili penetranti, sottomarini, caccia da combattimento e bombe nucleari, ci sarebbe carenza dei materiali?

Notte dopo notte, in metà del mondo, alcuni di noi guardano gli appuntamenti del governatore di New York con una fascinazione che è difficile da spiegare. Seguiamo le statistiche, e ascoltiamo le storie degli ospedali sovraccarichi negli States, o di infermiere sopraffatte e sottopagate che devono arrangiarsi con le maschere usando sacchi dell’immondizia e vecchi spolverini per la pioggia, rischiando tutto quello che hanno per soccorrere chi sta male.

Seguiamo come gli Stati competano fra di loro nel fare l’offerta più alta per i respiratori, come i medici debbano prendere la scelta di chi salvare e chi lasciar morire. E pensiamo, “Dio mio, questa è l’America!”.

La tragedia è immediata, reale, immensa e in continua evoluzione sotto i nostri occhi. Ma non è nuova. È il rottame di un treno che ha sbandato nel suo percorso per anni. Chi non si ricorda dei video degli “scarica-pazienti” – persone malate, ancora nel loro camice ospedaliero, a culo scoperto, buttate di nascosto negli angoli delle strade?

Le porte degli ospedali sono state troppo spesso chiuse per i cittadini meno fortunati degli Stati Uniti. Non importava quanto stessero male, o quanto avessero sofferto. Almeno fino ad ora – perché ora, nel momento del virus, una persona povera ammalata può contagiare una persona ricca della società.

E ancora, persino oggi, Bernie Sanders, il senatore che ha incessantemente lottato in campagna elettorale per il sistema sanitario pubblico, viene considerato fuori dalla corsa per la Casa Bianca, anche dal suo stesso partito.

E che dire del mio paese, il mio povero-ricco paese, l’India, sospeso in qualche dove fra il feudalesimo e il fondamentalismo religioso, le caste e il capitalismo, governata dal nazionalismo indù di estrema destra?

In dicembre, mentre la Cina stava lottando contro l’avanzata del virus a Wuhan, il governo indiano stava affrontando una massa di centinaia di migliaia di persone che protestava contro la legge di cittadinanza discriminatoria e anti-musulmana senza vergogna, che era appena passata in Parlamento.

Il primo caso di Covid-19 in India è stato registrato il 30 gennaio, qualche giorno dopo era ospite della nostra parata per il giorno della Repubblica l’onorevole presidente, mangiatore della foresta amazzonica e negazionista-Covid Jair Bolsonaro, che ha poi lasciato Delhi.

Ma c’era troppo da fare in febbraio e il virus non è stato accolto nell’agenda di governo. C’era la visita ufficiale del presidente Donald Trump programmata per l’ultima settimana del mese. È stato attirato con la promessa di un’audience di un milione di persone in uno stadio sportivo nello stato di Gujarat. Tutto questo è costato soldi, e davvero molto tempo.

Poi c’era l’elezione dell’assemblea di Delhi che il partito Bharatiya Janata era previsto perdesse a meno che non alzasse la posta, cosa che ha fatto, conducendo una feroce e senza regole campagna nazionalistica, piena di minacce di violenza fisica, minacciava di fucilare i “traditori”. Ha perso comunque. Quindi c’era poi la punizione da infliggere ai musulmani di Delhi, che sono stati incolpati per la sconfitta. Una folla armata di guardie indù, protette dalla polizia, hanno attaccato i musulmani, che si trovavano nel quartiere operaio nel nord-est di Delhi. Case, negozi, moschee e scuole sono state bruciate. I musulmani che si aspettavano l’attacco hanno risposto. Più di cinquanta persone, indù e musulmane, sono state uccise. Migliaia si sono trasferite nei campi per rifugiati presso i cimiteri locali. I corpi mutilati venivano ancora tirati fuori dalla sudicia e puzzolente rete di scarico quando i funzionari di governo hanno avuto il loro primo incontro sul Covid-19 e la maggior parte della popolazione ha iniziato a sentire dell’esistenza di qualcosa come il disinfettante per le mani.

Marzo era pieno di impegni allo stesso modo. Le prime due settimane sono state occupate per far cadere il governo del congresso nello stato centrale dell’India di Madhya Pradesh e per instaurare un governo del partito Bharatiya Janata al suo posto.

L’undici marzo l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha dichiarato che il Covid-19 era una pandemia globale. Due giorni dopo, il 13 marzo, il ministro della sanità ha detto che il corona “non è un’emergenza sanitaria”. Finalmente, il 19 marzo, il primo ministro indiano ha avvisato la nazione.

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Last modified on Martedì, 14 Aprile 2020 16:11

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