Già nel XVIII secolo, alcune correnti del protestantesimo europeo denunciavano l’incompatibilità della dottrina cristiana con l’investimento nel commercio di armi e di alcol, nel gioco d’azzardo e nello sfruttamento degli schiavi.
Con il tempo, la sfera religiosa ha ceduto il passo a questioni di rilevanza sociale. Dagli anni Sessanta del secolo scorso, nella maggior parte dei Paesi industrializzati si diffondono movimenti di protesta per la difesa dei diritti civili e la tutela della partecipazione democratica come, per esempio, le contestazioni universitarie americane nei confronti di chi, attraverso i propri investimenti, sosteneva la guerra in Vietnam. Grazie a questa nuova sensibilità, e al relativo attivismo, si assiste a uno sviluppo graduale di pensieri e azioni che prospettano un cambiamento dei mercati finanziari.
Negli anni successivi cresce la domanda di prodotti e servizi finanziari “nuovi”, perché l’investimento viene sempre più concepito dai risparmiatori come strumento virtuoso di cambiamento sociale.
Finanza e attivismo
Il “fondo comune” raccoglie somme di più risparmiatori e le investe come un unico patrimonio: attraverso una gestione collettiva si ottengono vantaggi in termini di rendimento, minori costi, maggiore potere contrattuale nell’investimento e diversificazione delle attività finanziarie.
Il primo fondo comune etico, il Pioneer Fund, volto a promuovere un cambiamento sociale, venne ideato negli Usa per gestire gli investimenti di alcune istituzioni religiose. Inizialmente rispecchiava l’etica dei risparmiatori ed escludeva intere categorie merceologiche o attività, quali tabacco, alcol e gioco d’azzardo.
Nel Vecchio Continente si inizia a parlare di investimenti socialmente responsabili a partire dagli anni Ottanta: in Gran Bretagna nasce il fondo Friends Provident’s Stewardship Trust, lanciato dalla Friend Provident, una mutua compagnia assicurativa inglese legata al movimento protestante dei quaccheri.
Sono però gli anni Novanta a decretare la diffusione di questi investimenti: secondo i dati di Vigeo Eiris, una primaria agenzia di rating sociale ed ambientale, nel giugno 2016 l’Europa registrava 1.138 fondi comuni definiti “verdi”, “sostenibili” o “etici”, con masse gestite pari a 158 miliardi di euro. Secondo la stessa fonte, Francia, Regno Unito, Svizzera e Olanda hanno una posizione di leadership, con oltre il 60% del totale investito.
Un chiarimento necessario
Per anni in Europa è mancata una definizione univoca di investimento “socialmente responsabile” o “etico”. Tra le molteplici cause, la complessità di questa tipologia di investimenti e alcuni pregiudizi che hanno spesso generato malintesi, anche sul piano lessicale: l’etica veniva associata alla morale della comunità civile o dell’investitore, e il fatto di essere “socialmente responsabile” si identificava con l’escludere produttori di armi, tabacco ed alcol. Si pensava anche che investire in modo socialmente responsabile si concretizzasse, di fatto, in una pura devoluzione dei proventi in beneficenza.
Non è così: lo sviluppo degli investimenti sostenibili e responsabili a livello mondiale avviene anche, e sempre di più, da parte di soggetti che per definizione non sono enti caritatevoli bensì società profit.
Dall’etica alla sostenibilità
Nel 2014, il Forum per la Finanza Sostenibile, network italiano per la promozione di tale finanza, ha presentato ufficialmente la sua definizione di investimento sostenibile e responsabile (Sri – Sustainable and Responsible Investment) che può essere declinata per le differenti tipologie di strumenti finanziari: fondi comuni di investimento, prodotti assicurativi, e altro.