Secondo la Fondazione Moressa, nel 2017 gli immigrati hanno pagato 7,9 miliardi di Irpef, una cifra importante, ma che costituisce solo il 4,3% del totale dell’Irpef versata. Ciò dipende dal fatto che il reddito medio dei contribuenti stranieri è di 13.671 euro, con un forte divario rispetto agli italiani, che invece ne percepiscono in media 21.406: oltre 7.000 euro di differenza.
Al di là della media, è rilevante il fatto che il 48% degli immigrati regolari abbia un reddito sotto i 3.760 euro.*
Vulnerabilità
Le cause del basso reddito vanno ricercate, da un lato, nei salari tendenzialmente più bassi degli immigrati, che tendono a svolgere mansioni poco o per nulla qualificate e, dall’altro, nella frequenza del lavoro “grigio”, cioè la dichiarazione “in chiaro” solo di una parte delle ore effettivamente svolte: ciò coinvolge in particolare gli stranieri in regola con le norme sul soggiorno. Ciò avviene perché, a causa della stretta connessione che la legge pone tra lavoro e permesso di soggiorno, hanno bisogno di un contratto lavorativo per rinnovarlo. Pertanto accettano condizioni di lavoro anche molto sfavorevoli pur di non perdere la regolarità del soggiorno.
Il lavoro nero, che affligge una parte non trascurabile dell’economia italiana, oltre che tra gli italiani è più diffuso tra gli stranieri non in regola con le norme sul soggiorno. Non esistono dati affidabili sul fenomeno, ma è ovvio che una persona senza validi documenti di soggiorno non è in grado di stipulare un regolare contratto di lavoro.
Due esempi tipici ricorrono nel lavoro domestico e in quello dell’agricoltura. Il settore domestico, tradizionalmente interessato da rapporti di lavoro non dichiarati, è in forte espansione; il settore agricolo, invece, vede alcuni specifici contesti non solo esposti a frequenti irregolarità contrattuali, ma anche con diffuse pratiche di vero e proprio sfruttamento.
Possibilità di riscatto
Negli ultimi anni una possibilità di riscatto degli immigrati è la loro crescente presenza tra i lavoratori autonomi: la Fondazione Moressa precisa che nel 2017 gli imprenditori nati all’estero erano 691.303, pari al 9,2% del totale.
Per le persone straniere l’avvio di un’attività autonoma può costituire l’esito, ma anche l’inizio, di un percorso emancipatorio che permette di sganciarsi da una condizione di subordinazione lavorativa di fatto e di diritto, come evidenziato sopra.
Inoltre, le loro attività sono spesso connesse all’import-export, e ciò permette all’immigrato di mettere a frutto la propria condizione ibrida o di “ponte” tra luoghi diversi, anche grazie alla padronanza di diverse lingue.
Infine, avviare un’attività nel Paese di arrivo è sicuramente un tassello rilevante del processo di inte(g)razione, perché implica un investimento economico, ma anche emotivo e personale, di medio-lungo periodo sul territorio.
Ambiti imprenditoriali privilegiati
Il 35% degli imprenditori nati all’estero opera nel commercio, il 22% nei servizi, il 21% nelle costruzioni. Seguono il 10% tra alberghi e ristoranti, il 9% nella manifattura e solo il 3% in agricoltura.
C’è da dire che non tutta l’imprenditoria equivale a un’autonomia effettiva: una parte delle posizioni aperte, in particolare nelle costruzioni (dove gli immigrati sono il 15% degli imprenditori totali), sono lavoratori che operano concretamente in condizioni di quasi subordinazione.