Chi inneggia alla chiusura delle frontiere quali motivazioni adduce? E chi si appella alla libera circolazione dei popoli a quali princìpi attinge?
Donatella Di Cesare* ha cercato risposta a partire dallo Stato-nazione, ritenuto fenomeno naturale e scontato. In realtà è anch’esso un fenomeno storico: in Europa le nazioni di oggi, con l’eccezione del Belgio, hanno preso forma dopo la pace di Vestfalia, che nel 1648 pose fine alla Guerra dei Trent’anni, mentre Germania e Italia sono emerse soltanto alla fine dell’Ottocento.
Nazioni, globalizzazione e sovranismo
Il mondo della globalizzazione è complesso e difficile da interpretare, ma un suo elemento caratterizzante è il movimento continuo di merci, denaro e persone che si accompagna alla perdita di sovranità dello Stato nazionale. Questa è particolarmente avvertita entro l’Unione Europea, che dopo la Seconda guerra mondiale non è riuscita a generare una nuova forma politica post-nazionale.
Il sovranismo reagisce a tale perdita di sovranità e invoca la chiusura delle frontiere sulla base di tre argomenti:
• sovranità popolare – il popolo decide;
• integrità nazionale – chi viene da fuori è una minaccia che contamina e mina l’identità nazionale;
• cittadinanza come “comproprietà” del territorio nazionale – l’immigrazione è equiparata a “invasione straniera”.
Per contro, chi inneggia alla completa apertura dei confini adduce una varietà di argomenti. Quello fondato sul diritto alla libera circolazione delle persone rimane astratto: chi emigra per ragioni gravi e complesse non desidera girare liberamente il globo come chi si sposta per turismo. Donatella Di Cesare evidenzia che molte migrazioni affondano le proprie radici in una profonda disuguaglianza: chi nasce nel “luogo sbagliato” non ha diritto a vivere come chi nasce nel “luogo giusto”.
L’argomento che richiama la mobilità come connaturale agli esseri umani, invece, ne svilisce l’intenzionalità: decidere di emigrare è una scelta politica ed esistenziale, che implica un incontro e anche uno scontro con l’altro e l’altra.
Cittadinanza di ieri e di oggi
Atene, spesso citata come modello di democrazia, ne costituiva in realtà una forma molto imperfetta, non solo perché escludeva le donne e manteneva la schiavitù, ma anche perché si fondava sul mito della madre patria, di cittadini “nati dalla stessa terra”. La cittadinanza era riconosciuta per nascita e per suolo, nel senso che era attribuita soltanto agli “autoctoni”: coloro che su quella terra vivevano dalla nascita e non se ne spostavano. Chi lasciava per un tempo la città, al suo ritorno non ne era più cittadino perché la cittadinanza ateniese implicava l’immobilità.
In tempi più recenti, lo Stato-nazione si è costituito grazie alle frontiere che lo delimitano e alla distinzione fra i propri cittadini e gli altri. La “nazione”, dal latino natio, derivato del verbo nasci, ovvero “nascere”, è essa stessa un mito, perché è costituita da tante diversità, come l’Italia stessa testimonia. Allora, chi viene da fuori quale “integrità nazionale” contamina?
Eppure, la complicità fra Stato nazionale e cittadinanza colpevolizza e spesso criminalizza chi arriva da oltrefrontiera, alimentando un conflitto fra “autoctoni”, per nascita e per suolo, e “migranti”: può legittimamente entrare soltanto chi risponde alla richiesta di forza lavoro o ad altri bisogni dello Stato-nazione (investimenti, turismo…).