Nei meandri di tabelle e statistiche raccolte da autorevoli pubblicazioni internazionali, il dossier di Legambiente solleva una importante questione di tipo giuridico. I disastri naturali colpiscono milioni di persone, soprattutto dove il tenore di vita è più basso: secondo il rapporto dell’Internal Displacement Monitoring Centre, pubblicato nel maggio 2013, queste assommano al 98% di chi ha dovuto lasciare la propria abitazione a causa di disastri naturali.
In Africa, nel 2012, oltre 8,2 milioni di persone sono emigrate per alluvioni, siccità e altri eventi metereologici estremi. Rispetto alla media dei quattro anni precedenti sono state più del quadruplo. Nello stesso anno, in Oceania, per le tempeste in Papua Nuova Guinea, Figi e Australia, oltre 129.000 persone sono state costrette a emigrare, mentre l’India ha registrato il più alto numero di sfollati interni: 9,1 milioni.
E dal 2008 al 2012 gli sfollati per fenomeni naturali in Cina sono arrivati a 49,8 milioni.
In cerca di un nome
Tante “cifre” senza “identità”: milioni di persone che per decenni sono state chiamate in modo diverso in risposta alla stessa domanda: perché emigrano? La scelta di partire dipende da una molteplicità di fattori: «È importante soffermarsi sulle nozioni di vulnerabilità, resilienza e riduzione del rischio, che rappresentano un utile strumento per analizzare il degrado ambientale e prevederne l’impatto sui territori e sulla mobilità».
Sono migranti, profughi o rifugiati? Una siccità prolungata o ricorrente mina l’economia di agricoltori e allevatori e li spinge a cercare vita altrove: «Questo spostamento può essere erroneamente percepito come volontario e preventivo in quanto i problemi non sono immediatamente visibili e l’urgenza di migrare apparentemente meno pressante. Nel caso di “migrazioni forzate”, le motivazioni sono di natura politica, religiosa o etnica, oppure sono facilmente riconducibili a eventi catastrofici naturali o provocati da errore umano». Peraltro, in concomitanza di catastrofi naturali improvvise, gli spostamenti sono massicci, nello stesso periodo e con flussi evidenti, ma quando la migrazione è indotta da cambiamenti climatici a lenta insorgenza, esito di alterazioni cumulative, spesso le persone partono alla spicciolata e rimangono poco visibili; tanto meno vengono identificate come “rifugiati ambientali” costretti a emigrare.
Rifugiati senza diritto di asilo
«La definizione più completa di rifugiato ambientale è quella proposta da Norman Myers nel 1995: I rifugiati ambientali sono persone che non possono più garantirsi mezzi sicuri nelle loro terre di origine principalmente a causa di fattori ambientali di portata inconsueta. Questi fattori comprendono siccità, desertificazione, deforestazione, erosione del suolo e altre forme di degrado del suolo; deficit di risorse come, ad esempio, quelle idriche; declino di habitat urbani a causa di massiccio sovraccarico di sistemi; problemi emergenti quali il cambiamento climatico, specialmente il riscaldamento globale; disastri naturali quali cicloni, tempeste e alluvioni, e anche terremoti, con impatti aggravati da mancati o errati interventi umani».