Ingiustizia scandalosa
Mi ha profondamente toccato, in Centro America, l’incontro con chi vive in contesti di povertà e sfruttamento, in questi Paesi la cui storia è caratterizzata da una lunga catena di repressione, brutalità e violenza contro chi lotta per la giustizia sociale. A Città del Guatemala il nostro gruppo ha conosciuto la realtà del Mojoca, che è nata a partire da ragazzi e ragazze di strada per dare speranza, rinascita e un riscatto sociale a tante persone altrimenti condannate alla disperazione e al degrado. È meraviglioso quello che sta accadendo lì: che l’umanità resista per fiorire splendidamente dove e quando meno te lo aspetti.
Le strade e le piazze a Città del Guatemala portano i segni visibili della violenza inferta: passeggiando si possono incontrare tante testimonianze che fanno memoria di una terribile storia di repressione e sangue.
C’è il monumento creato dalle madri di decine di ragazzine bruciate vive per aver denunciato gli abusi sessuali subiti in una struttura governativa che avrebbe dovuto proteggerle.
Una colonna ricorda monsignor Juan Gerardi, vescovo ausiliario della capitale guatemalteca: venne ucciso la notte tra il 26 ed il 27 aprile 1998, per aver pubblicato il rapporto Nunca más (“Mai più”), una memoria storica del Paese con testimonianze su stragi, massacri, sparizioni e innumerevoli violazioni dei diritti umani perpetrati negli anni del conflitto civile. Ebbe anche il coraggio di denunciare i responsabili: dopo 48 ore era già morto.
Una sensazione di vulnerabilità, di impotente frustrazione, di profonda indignazione mi ha assalito a più riprese, accompagnandomi anche in Salvador, una terra bagnata dal sangue di tanti martiri, per lo più anonimi, che hanno pagato con la vita la lotta per il rispetto dei diritti umani. Abbiamo seguito un itinerario a tappe per percorrere questa storia segnata dalla violenza ma anche dall’eroismo di tante persone che hanno versato il loro sangue per un futuro migliore. Una lista interminabile di soprusi raccapriccianti. Abbiamo visitato la tomba di padre Rutilio Grande, assassinato; l’Università Centro Americana (Uca), dove sei gesuiti sono stati trucidati; El Mozote, paesino in cui più di mille persone vennero trucidate dall’esercito governativo e dagli squadroni della morte per presunta connivenza con i guerriglieri. Infine abbiamo visitato i luoghi di monsignor Romero, profeta che si è schierato con il popolo oppresso del Salvador. La sua eredità alimenta la speranza in un futuro di pace e giustizia. Un altro mondo si può fare, quindi si deve fare.
Una lezione di vita
Eppure, a fianco di questa realtà sconsolante, ho scoperto l’ostinata resistenza di chi ama tenacemente la vita e la silenziosa armonia che il popolo Maya coltiva con la natura. Nella regione guatemalteca del Petén siamo stati ospiti di alcune piccolissime comunità indigene. Divisi per gruppi di due o tre, siamo stati accolti da questo popolo depositario di un’antichissima, millenaria, affascinante cultura. Mi sento privilegiata, consapevole di aver avuto il dono di vivere un’esperienza unica e irripetibile. Questo popolo è custode di una cultura che sta scomparendo: i Maya, come altri popoli indigeni, sono tuttora oggetto di discriminazione sociale, culturale e politica. In Guatemala, non avere una goccia di sangue indigeno nelle proprie vene è per qualcuno addirittura motivo di vanto.