Verso gli Stati Uniti avevo pregiudizi e preconcetti alimentati dalle sue decennali e – a mio parere – arroganti politiche economiche ed estere ulteriormente rafforzate da George Bush Jr. Nutrivo sentimenti contrastanti: da una parte sentivo di andare nella pancia di quello che consideravo un po’ l’impero del male, dall’altra ero curiosa di vedere dal vivo ciò che Hollywood mostra nei suoi film: città cosmopolite piene di vita e zone urbane alberate con case i cui giardini non hanno recinti e le finestre non hanno inferriate. Con sorpresa ho trovato e frequentato tante persone di ogni credo ed estrazione sociale impegnate a dar voce ai valori che noi definiamo “evangelici”, ma recinti e inferriate sono davvero praticamente inesistenti.
Forti contrasti
Al contrario dell’Italia, la povertà, l’emarginazione, la mancanza di accesso a buone scuole e lavori decenti tendono a concentrarsi in ambiente urbano: chi può lascia la città e la raggiunge solo per lavoro o turismo. La mia comunità è a Baltimora, nel Maryland, dove due abitanti su tre sono afroamericani. Vicina a Washington DC, è una città di forti contrasti: numerose e ottime università pubbliche e private attirano studenti da tutto il mondo; il Johns Hopkins e altri specializzatissimi ospedali danno speranza a malati cronici e terminali, ma una persona su cinque vive in povertà, ci sono 17.000 case abbandonate e in rovina, e la povertà alimenta uno dei più alti tassi di criminalità del Paese.
Il primo presidente afroamericano
Sono arrivata a Baltimora giusto in tempo per seguire la sorprendente corsa di Barack Obama verso la nomina a candidato presidenziale per il Partito democratico. Il giorno delle elezioni andai al seggio con due sorelle cittadine statunitensi; rimasi colpita dalle lunghe, pazienti e festose code che sfidavano il freddo intenso. Quando fu eletto 44° presidente degli Usa, un’esplosione di gioia illuminò la notte della città.
Obama sale alla Casa Bianca nel mezzo della grande recessione causata dall’esplosione della bolla creata dalla speculazione immobiliare degli anni precedenti. In pochi mesi, svaniscono i risparmi di una vita per milioni di persone, e migliaia di imprese dichiarano bancarotta; il livello di disoccupazione raggiunge cifre mai viste negli ultimi 25 anni. Il governo concede ingenti prestiti alle imprese per mantenerle a galla e annuncia diversi pacchetti di stimolo economico. Solo nel 2014 il tasso di disoccupazione torna ai valori precedenti la recessione. Negli ultimi mesi, però, il coronavirus ha creato una crisi economica ancor più grave di quella. Se ne ignorano ancora i contorni esatti, ma la fragilità e l’iniquità dell’economia di mercato è già lampante: chi non può fare smart working ha lavori poco pagati, e se non è stato già licenziato si trova quotidianamente esposto al virus. I piccoli commercianti non ce la fanno a riprendersi dal lockdown.
Immigrazione: potenzialità da gestire
Secondo il Migration Policy Institute, oggi nel Paese si trovano 11,3 milioni di immigrati irregolari: tre su quattro provengono da Messico, America Centrale e Sudamerica; per metà hanno tra i 25 e i 45 anni; poco meno della metà non parla bene inglese; tre su cinque sono negli Usa da più di 10 anni e uno su cinque addirittura da più di 20 anni. Sono irregolari non perché “furbi” ma perché, per chi proviene da certi Paesi e per i lavoratori non qualificati, i visti d’ingresso sono concessi con il contagocce. Fin dall’Ottocento gli Usa deportano immigrati che non hanno i documenti in regola e nei decenni hanno adottato politiche più o meno restrittive. Neppure Obama ha osato una sanatoria per regolarizzare gli irregolari, ma durante la sua presidenza alcune iniziative ne hanno agevolato l’esistenza.
La prima, del 2011, è la Deferred Action for Childhood Arrivals (Daca), conosciuta come Dream Act: immigrati irregolari minorenni che vivono nel Paese da almeno 4 anni godono di uno status temporaneo di residenza che li protegge dalla deportazione, permette di lavorare legalmente e anche di viaggiare fuori dal Paese. Non consente però di richiedere un permesso di residenza permanente. Nel 2017 il presidente Trump ha cercato di eliminare il Dream Act gettando nel panico circa 800.000 giovani che ne beneficiano e la cui deportazione è facilmente eseguibile perché il governo sa dove vivono. Nel giugno 2020 la Corte suprema ha bloccato l’iniziativa di Trump definendola arbitraria, capricciosa e non basata su valide giustificazioni legali; ma il verdetto non risolve il limbo in cui si trova chi beneficia della Daca.
Deportazioni e famiglie spaccate
L’altra iniziativa della presidenza Obama restringe la deportazione agli immigrati irregolari con precedenti penali o che costituiscono una minaccia per la sicurezza nazionale oppure che sono entrati nel Paese da meno di un anno; gli altri possono rimanere e chiedere un permesso di lavoro. Nel 2017, appena insediato, il presidente Trump inverte la politica di deportazione, estendendola a tutti gli immigrati irregolari. Al contrario dell’Italia, chiunque nasca negli Usa è automaticamente cittadino statunitense, indipendentemente dalla nazionalità e status legale dei propri genitori: si calcola che ci siano 4,1 milioni di minorenni cittadini americani che hanno almeno un genitore immigrato irregolare. L’azione di Trump genera un dilemma per figli e figlie nati negli Usa: i genitori deportati non vogliono portarli con sé in un Paese a loro sconosciuto e spesso violento; preferiscono affidarli a parenti rimasti negli Usa. Chissà se e quando queste famiglie avranno la possibilità e i mezzi economici per riunificarsi.
Negli ultimi anni, si presentano alla frontiera richiedendo asilo molte famiglie provenienti da El Salvador, Guatemala e Honduras. Nonostante si tratti, per moltissimi di loro, di una questione di vita o di morte, Trump ha adottato politiche per ridurne il flusso. Una delle più ignobili risale all’estate del 2017: per dissuadere le richieste di asilo, alla frontiera gli adulti venivano destinati ai centri di detenzione, mentre i loro figli e figlie venivano inviati in centri di accoglienza. Nel giugno 2018 un giudice federale ha ordinato il ricongiungimento familiare per 5.400 minori, ma il negligente sistema di monitoraggio l’ha reso difficile.
Nonostante gli Stati Uniti siano un Paese creato da immigrati, sin dall’inizio della loro storia vivono la tensione tra accoglienza e rifiuto di chi – per motivi diversi – vi arriva per rifarsi una vita. Prego perché non dimentichino mai il sonetto iscritto ai piedi della Statua della Libertà, che gli emigranti europei vedevano avvicinandosi a New York: «Datemi i vostri stanchi, i vostri poveri, le vostre masse infreddolite desiderose di respirare libere, i rifiuti miserabili delle vostre coste affollate. Mandatemi loro, i senzatetto, gli scossi dalle tempeste e io solleverò la mia fiaccola accanto alla porta dorata».
* Suora missionaria comboniana, classe 1965.