Ho professato il 29 settembre 1950. Terminato il corso d’infermiera all’Ospedale civile di Brescia, nel dicembre 1951 sono ad Anversa, in Belgio, per il francese, la formazione coloniale e un corso di medicina tropicale all’Istituto Léopold II. Ci ospitano delle suore francesi. Su suggerimento dei missionari dehoniani, rimango fino al 1953, per frequentare a Bruxelles il corso di ostetricia presso la maternità delle suore agostiniane fiamminghe.
In viaggio
A fine aprile 1954 sono di nuovo a Verona, e dopo pochi giorni, con due consorelle destinate all’Uganda, salpo da Venezia sulla motonave Europa. Dopo 16 giorni di navigazione arriviamo a Mombasa, in Kenya. Un signore inviato dalla missione ci aiuta a sdoganare le valigie e tanti bagagli affidatici per le comunità dell’Uganda. Dopo tre giorni di treno arriviamo a Tororo, dove ci attende un fratello comboniano. Carichiamo tutto sulla sua camionetta e si riparte subito per la missione di Lira. La raggiungiamo il giorno seguente e vi sostiamo due giorni. Io riparto per Gulu e rimango in Uganda circa un mese: la prima malaria la soffro lì. Il mio visto per il Congo scade il 30 giugno 1954: raggiungo Arua, sul confine, dove mi attende monsignor Joseph Wittebols, vescovo di Wamba. Passo il confine giusto in tempo: è il 30 giugno! Dopo la frontiera, altri due giorni interi di viaggio fino alla nostra comunità di Maboma. Le sorelle si adoperano per farmi raggiungere Nduye, dove sono accolta con tanta festa. Dopo qualche giorno di riposo scendo al dispensario e alla maternità: suor Silvana Clerici, in partenza per cure e riposo in Italia, mi passa le consegne. Inizio in grandi ristrettezze economiche, coadiuvata da alcuni infermieri congolesi per il laboratorio di analisi e da un’aiutante ostetrica per la maternità. E intanto studio la lingua swahili. Farmaci e altro materiale li passa il governo, che paga anche il personale. Dopo un anno, riconoscono i miei diplomi e posso anch’io percepire un salario, prezioso per la comunità.
A Ngayu, fra gioie e timori
Nel luglio 1956 apriamo la comunità a Ngayu, e con altre quattro sorelle raggiungo la nuova missione. I dehoniani olandesi hanno preparato per noi una casa sulla collina e, come a Nduye, stanno edificando la scuola per le ragazze, i dormitori, il dispensario e la maternità.
La scuola inizia sotto gli alberi, come il dispensario: ho una sedia, un tavolino, una cassetta di medicine portate da Nduye e una lunga fila di gente che sgomita. Le donne gravide, abituate a partorire a casa, sono più restie: all’inizio la sala parto è in un magazzino o sotto un albero. Con le partorienti ero molto attenta: se moriva un bam-bino, avrei perso la loro fiducia.
Nel 1960, raggiungono Ngayu solo gli echi dell’indipendenza, ma il 15 agosto 1964 irrompono i Simba. Da Kisangani (Stanleyville) avevano già seminato terrore e morte. Prima di allora si erano presentati promettendo protezione. Il padre comboniano Antonio Zuccali ci avverte che la situazione sta precipitando e si offre di accompa-gnarci in Uganda. Due sorelle vanno dal vescovo a esprimere le nostre preoccupazioni: «Sorelle – risponde –, il Buon Pastore non abbandona il gregge quando il lupo si avvicina». Così decidiamo di restare.
Riprendiamo la nostra vita, ma molte ragazze della scuola scappano ai villaggi; ogni mattina scendo al dispensario e alla maternità, ma la gente è sempre meno. I capivillaggio si offrono di nasconderci in foresta, ma noi rifiu-tiamo: temiamo che i Simba, non trovandoci, massacrino la popolazione. Un giorno si fermano e ci dicono che le suore di Nduye sono “protette” dai loro capi perché sono diventate loro mogli. Che sgomento! Abbiamo poi saputo che erano state portate a Mambasa e minacciate di morte; avevano assistito all’uccisione di padre Longo, ma di notte erano state nascoste da un catechista e messe in salvo dai pigmei nella foresta.