Il fiume Congo viene rinominato Zaire, da nzeri che significa “fiume” in una lingua locale (termine che i portoghesi avevano distorto appunto in “Zaire”). Lui stesso cambia nome: si fa chiamare Mobutu Sese Seko e impone a ogni cittadino e cittadina di adottare un nome “tradizionale”; nell’ottobre del 1971 la stessa Repubblica del Congo diventa Repubblica dello Zaire. La politica di autenticità culturale viene apprezzata in altri Paesi africani per la musica, gli abiti, e anche per la “zairizzazione” delle risorse, ovvero la nazionalizzazione di tutte le maggiori imprese, inclusa la strategica Union Minière, che era rimasta sotto controllo belga.
Gli equilibrismi di Mobutu
Il presidente Mobutu, copricapo di leopardo e bastone del comando in pugno, in politica internazionale si rivela uno scaltro equilibrista, e riesce a controllare il suo immenso Paese con una decentralizzazione che riversa favori, anche pecuniari, su capi locali e gruppi di potere. Il sistema è costoso, ma garantisce una relativa stabilità fino al 1977, quando dall’Angola i ribelli dell’ex-Katanga, ribattezzato Shaba, cercano di invadere quella ricca provincia mineraria; solo l’intervento di truppe belghe, marocchine e francesi li respinge.
Negli anni Ottanta il regime raggiunge livelli scandalosi di corruzione e rapina. Per contrastarlo sorgono partiti di opposizione, fra i quali l’Unione per la democrazia e il progresso sociale (Udps); Mobutu, però, storico alleato di Usa e Francia in un contesto africano sempre più insidiato dall’Unione Sovietica, riesce a mantenere saldamente il potere fino al termine della Guerra fredda. All’inizio del 1990, dopo il crollo del muro di Berlino, non è più un alleato strategico. Le persistenti proteste interne, innescate dal crollo dell’economia, e le ripetute critiche internazionali, motivate dalla violazione dei diritti umani, costringono il dittatore ad accettare altri partiti ed elezioni democratiche, ma il saccheggio di Kinshasa, forse da lui stesso pilotato, ritarda il cambiamento. Con l’apparato statale incapace di retribuire i pubblici ufficiali, i militari “si pagano” da soli e 20.000 cittadini stranieri lasciano lo Zaire.
Nel 1991 viene istituita la Conferenza nazionale sovrana (Cns), un forum di riconciliazione incaricato di elaborare una nuova Costituzione. Presieduta dall’arcivescovo cattolico di Kisangani, Laurent Monsengwo, include oltre 2.000 rappresentanti di diversi partiti politici. Mobutu la contrasta con molteplici sotterfugi, ma nel dicembre 1992 la Cns riesce a nominare l’Alto Consiglio della Repubblica, una sorta di Parlamento provvisorio. Il maresciallo, però, crea il “suo” governo e rende ingovernabile il Paese fino al 1994, quando l’Alto Consiglio accetta Mobutu come capo di stato e lui riconosce come primo ministro Léon Kengo wa Dondo, uomo stimato a livello internazionale. Le elezioni legislative e presidenziali deliberate dalla Csn continuano però a essere rinviate.
Da Kigali a Kinshasa
Nel 1994, quando lo Zaire sembra recuperare una certa normalità, il genocidio in Ruanda lo travolge. Le milizie hutu Interahamwe, responsabili dei massacri, sono sconfitte dall’Esercito patriottico ruandese (Rpa) di Paul Kagame e fuggono nel Kivu zairese, dove si imboscano nei campi profughi fra centinaia di migliaia di rifugiati e lanciano incursioni in territorio ruandese. Così, nell’ottobre 1996, l’Rpa invade il Kivu usando come copertura una coalizione ribelle locale, l’Alleanza delle forze democratiche per la liberazione (Afdl), guidata dall’ex-Simba Laurent Désiré Kabila. Con l’appoggio di Uganda e Ruanda, l’Afdl marcia su Kinshasa per rovesciare il governo zairese. Si tratta di una vera e propria invasione straniera, che i ripetuti appelli dell’Onu e i negoziati internazionali non riescono a fermare: nel maggio 1997 l’Afdl occupa Kinshasa e Kabila si proclama presidente della nuova Repubblica democratica del Congo (Rdc). La svolta politica è espressa anche dal cambio di nome: lo Zaire è finito. Mobutu fugge in Marocco, dove muore pochi mesi dopo.