A Nairobi gli stranieri sono spesso accolti da giovani in costume masai, ma che masai non sono: è il loro “lavoro”, vista l’attrazione che esercitano sui turisti le bellezze naturalistiche ed etniche del Paese, di cui il Masai in costume è diventato un’icona
Origini e sviluppi
Il Kenya è molto di più di quello che i viaggi turistici mostrano. Le sue bellezze, anzitutto umane, e le sue profonde contraddizioni, ancora anzitutto umane, costellano la sua storia. È abitato da una molteplicità di etnie con origini bantu, nilotiche e cuscitiche. Nel 1999 erano Kikuyu (23,1%), Luo (16,9%), Kamba (13%), Kalenjin (10,7%), Kisii (8,4%), Meru (6,8%), Mijikenda (6,8%), Turkana (2,9%), Luhya (15,3%), Masai (2,4%), Pokot (1,9%) e Borana (1,3%); nelle zone rurali conservano la loro lingua e i loro costumi, mentre nei contesti urbani si mescolano in un popolo che parla la lingua nazionale (kiswahili) e ufficiale (inglese) del Paese. Il Kenya ospita anche arabi, europei e asiatici, vestigia di un’invasione coloniale terminata soltanto il 12 dicembre 1963 con l’indipendenza dal Regno Unito.
Colonizzazioni a strati
Prima dell’anno Mille gli insediamenti arabi costellano la costa in supporto alle rotte commerciali dell’Oceano Indiano, e da Zanzibar comincia a diffondersi anche il commercio di schiavi. Nei secoli le popolazioni costiere generano un intreccio di lingue bantu e araba: il kiswahili. Gli esploratori portoghesi raggiungono le coste del Kenya alla fine del Quattrocento e un secolo dopo stabiliscono a Mombasa l’insediamento militare di Fort Jesus. Altri esploratori europei si avventurano nelle zone interne del Paese solo alla fine dell’Ottocento, nel tentativo di raggiungere le sorgenti del Nilo, ovvero il Lago Vittoria.
Nel 1883 Joseph Thomson attraversa il territorio masai fino a Kampala, aprendo il tracciato ferroviario da Mombasa all’Uganda: nel 1885 la Compagnia dell’Africa Orientale, di natura commerciale, diviene Protettorato britannico dell’Africa Orientale e il Kenya colonia dell’impero. Per costruire la ferrovia viene importata manodopera indiana che poi si stabilirà nel Paese. Il collegamento diretto dalla costa dell’Oceano Indiano al Lago Vittoria incentiva ulteriormente la colonizzazione europea: le terre più fertili e a clima temperato sono “espropriate” dai “coloni bianchi”, che assumono al loro servizio persone del luogo senza però riconoscerne i diritti. Le vaste aree desertiche o semiaride del Paese non interessano all’amministrazione coloniale: vi vengono relegate le etnie che resistono alla cosiddetta “assimilazione”. Il Paese “civilizzato” si ferma a Isiolo, oltre la quale si estende una vasta riserva incontaminata di popoli nomadi e animali selvatici, accessibile soltanto con “permesso della Corona” – nei pressi della città c’era, fino a qualche decennio fa, uno sbarramento fisico di separazione tra i due mondi.
Nairobi, centro amministrativo della colonia, è divisa in quartieri “etnici” e le zone più belle della città sono riservate ai “bianchi”: gli abitanti del posto diventano “stranieri a casa propria”.
La rivolta dei Mau-Mau
La questione terriera esplode dopo la Seconda guerra mondiale, durante la quale soldati locali avevano combattuto a fianco dei loro colonizzatori. La rivendicazione della terra inizia nella fertilissima Provincia Centrale, abitata in prevalenza dall’etnia kikuyu: la rivolta Mau-Mau si estende successivamente fino alla Rift Valley, insanguina il Paese dal 1947 al 1961 e termina con la repressione dei ribelli. A fronte della morte di 11.000 di loro e di 2.000 africani arruolati dagli inglesi, i “bianchi” contano appena 92 vittime, ma la rivolta segna comunque la fine della colonizzazione. Dal 1954 inizia una serie di concessioni politiche, incluso un limitato diritto di voto per gli africani, e nel 1960 il Regno Unito convoca una conferenza per negoziare il destino del Kenya con i rappresentanti dei partiti indipendentisti. Fra loro emerge Jomo Kenyatta, di etnia kikuyu: detenuto per anni durante la rivolta Mau-Mau, diventerà il primo presidente del Kenya indipendente.
In Kenya «non c’è problema», però...
«Kenya yetu hakuna matata» (Nel nostro Kenya non c’è problema). Lo ripete da decenni un famoso canto che accoglie chi visita il Paese e ne nutre l’economia. In effetti il periodo postcoloniale è rimasto immune dalle guerre civili che hanno devastato alcuni Stati limitrofi. Ciò ha permesso il rapido sviluppo di alcune aree del Paese, soprattutto quelle fertili che la colonizzazione aveva provvisto di infrastrutture e servizi di base. Si tratta di uno sviluppo frammentato e segnato da marcate diseguaglianze. Le rivalità etniche, già evidenti agli albori dell’indipendenza, aggravano ulteriormente le disparità.
Nel 1969 viene assassinato Tom Mboya, brillante e autorevole esponente politico di etnia luo, laureato all’Università di Oxford e amico di Martin Luther King e John F. Kennedy. Cofondatore del partito Kanu, prima dell’indipendenza era stato ministro del Lavoro nel governo di transizione; nel 1963 Kenyatta lo nomina ministro della Giustizia e dal 1964 è ministro dell’Economia e dello Sviluppo. Il suo assassino viene subito identificato: è un militare kikuyu, ma il mandante rimane ignoto. Da allora la questione etnica lacera il Kenya, viene ulteriormente alimentata dalla corruzione politica e non si risolve con la morte di Kenyatta. Nel 1978 gli succede Daniel arap Moi, di etnia kalenjin, che nel 1982 instaura un regime a partito unico. Il malcontento cresce e, su pressione degli alleati di Europa e Usa, Moi indice le prime elezioni “democratiche” nel 1992. Sono precedute da contrapposizioni violente su base etnica che riesploderanno periodicamente in concomitanza di altri importanti appuntamenti elettorali.