Era il 1992: per favorire il mio inserimento in quella realtà anche climaticamente difficile, suor Maria Teresa Goffi mi affida a una religiosa della congregazione internazionale del Sacro Cuore: a Kangole, spostarmi a piedi e vivere in modo molto frugale a contatto della gente mi ha fatto innamorare subito di quella realtà.
I primi sei mesi di vita tra i Karamojong sono trascorsi alternando l’apprendimento della lingua a Moroto e l’inserimento a Kangole, dove Lucia Careddu e Prassede Plodari mi hanno dato un esempio molto bello di impegno e servizio. Quindi ho raggiunto Namalu, dove ho vissuto per cinque anni un’esperienza pastorale molto arricchente, sia con le consorelle che con i comboniani: visitavo a piedi le cappelle e i villaggi per incontrare gruppi di donne e ragazze e condividere il messaggio del Vangelo attraverso varie attività. Nonostante l’insicurezza per le ricorrenti razzie, riuscivamo a spostarci in auto per raggiungere anche i centri più distanti, ma dovevamo farlo di notte. Ho lasciato Namalu nel 1998, ma, passando di recente dalla missione, ora gestita da suore africane, mi sono sentita a casa: è bello che le persone mi riconoscano ancora, e io loro.
Vivere con...
Nel 1998, con suor Natalina Marini abbiamo aperto una comunità a Iriri. A differenza delle altre missioni, non avevamo strutture nostre: la casa era molto piccola e situata in mezzo al villaggio. Spesso la gente pregava con noi nella nostra cappella, una semplice capanna. Era una comunità accogliente, dove si sono succedute varie comboniane. Maria Grazia Neri nella scuola primaria e io nella pastorale, ci siamo entrambe impegnate nella formazione di gruppi di donne.
In quegli anni il Karamoja era estremamente insicuro. In un contesto così violento la Chiesa costituiva l’unica realtà impegnata anche in attività sociali. Di recente sono tornata a Iriri e le persone si ricordano ancora di come scappavamo con loro per salvarci dalle sparatorie. Tutti avevano un fucile e lo usavano anche per rapinare; le armi erano tollerate dal governo perché i Karimojong arginavano a nord la guerra sudanese e a ovest le incursioni della Lord Resistence Army (Lra) di Joseph Kony, ma rendevano impenetrabile la zona anche allo stesso governo.
Fino agli inizi di questo millennio la Repubblica d’Uganda aveva un’amministrazione molto centralizzata: tutta la regione del Karamoja era un unico distretto con sede a Moroto, mentre oggi è suddivisa in ben cinque distretti, ciascuno dotato di forze di polizia e servizi essenziali, inclusi quelli sanitari ed educativi. La sicurezza è migliorata dopo il 2005, grazie alla fine della guerra sudanese e allo scemare della presenza terrificante dell’Lra: il governo ugandese ha disarmato i Karimojong e le razzie sono quasi scomparse.
Criticità e progressi
Sono tornata in Karamoja nel 2016 e ho trovato una strada asfaltata, un clima di pace e un incredibile proliferare di ong, ma nei villaggi la vita è ancora difficile e precaria.
Le ong hanno promosso progetti di assistenza e incentivato l’agricoltura, ma per le caratteristiche del suolo e le piogge sempre più erratiche la sicurezza alimentare non può essere garantita dai prodotti della terra, e oggi non è più garantita neppure dalla pastorizia, che nei secoli passati offriva sostentamento grazie agli immensi spazi riservati alla transumanza.
La qualità della vita sta migliorando per le iniziative di microcredito avviate da alcune ong e dalle Chiese. Sia nelle zone rurali come nelle aree urbane, i progetti di microfinanza, prevalenti nei gruppi di donne, permettono di avviare piccole iniziative imprenditoriali: allevamento di capre, commercio su piccola scala (cereali, sale, sapone) e anche coltivazione. Inoltre le famiglie sono aiutate a coprire spese sanitarie e scolastiche.
Ragazze, ieri e oggi
In Karamoja, come anche in molte altre aree dell’Uganda, l’istruzione scolastica è stata avviata dalle Chiese protestante e cattolica, ma nel “distretto chiuso” si è diffusa soltanto dagli anni Sessanta. Noi comboniane abbiamo dato un impulso determinante all’educazione delle ragazze, che però è ancora limitata. Comunque, se è vero che appena il 12% (le donne molto meno) della popolazione karimojong ha completato la scuola dell’obbligo (rispetto al 76% della media nazionale), c’è chi ha raggiunto la laurea. Medici, ingegneri, insegnanti, assistenti sociali, ecc. karimojong sono ancora una sparuta minoranza, ma hanno ruoli di responsabilità nell’amministrazione governativa e anche negli uffici delle ong e delle Chiese.
Dal 2010, non avendo più fucili, i giovani karimojong non possono più essere guerrieri e razziatori di bestiame, e oggi alcuni in città vivono del proprio stipendio o dei proventi di piccole attività imprenditoriali. La maggioranza, però, abita nei villaggi, dove lo stile di vita tradizionale impone ancora alle ragazze di diventare precocemente mogli e madri: rispetto al passato, sono solo più consapevoli di essere oppresse dalla loro cultura.
Scelte coraggiose
Noi continuiamo a seminare Vangelo, messaggio di dignità umana e fratellanza universale.
Negli anni Novanta, Veronica, giovane madre di tanti figli e maltrattata dal marito, ha avuto il coraggio di liberarsi dal peso della propria cultura e di rendersi economicamente autonoma. La carica spirituale mutuata dal Vangelo l’ha indotta ad avviare una piccola impresa e far studiare i suoi figli. Ho conosciuto tante donne analfabete che hanno voluto imparare a leggere per avvicinare personalmente il Vangelo. Di recente una ragazzina, dopo un nostro corso, ha avuto il coraggio di scappare di casa per sottrarsi al matrimonio forzato. Ha cercato rifugio in parrocchia e l’abbiamo accolta nel centro di protezione per vittime di violenza. Poi abbiamo dialogato con la famiglia perché rispettasse la sua volontà. Il processo è lungo, ma il Vangelo libera dalla paura e dissolve i pregiudizi.