Il 2° Festival della Missione si svolgerà a Milano dal prossimo 29 settembre al 2 ottobre. È frutto della collaborazione tra i due enti promotori (Conferenza degli Istituti Missionari Italiani e Fondazione Missio Italia della Cei) e l’Arcidiocesi di Milano.
Il Comitato culturale Festival della Missione ha nominato direttore generale Agostino Rigon, che dal 2018 dirige l’Ufficio missionario diocesano di Vicenza e dal 2019 coordina la Commissione missionaria Triveneto, mentre la direzione artistica è stata affidata a Lucia Capuzzi, giornalista di Avvenire incaricata della sezione esteri. Questa edizione ha un percorso che prepara all’evento, detto PreFestival, e uno che lo prolungherà, il PostFestival, coinvolgendo parrocchie, scuole, università e carceri.
Una giornalista già tanto oberata da tanto lavoro come te, con quale spirito ha accolto l’invito a essere la direttrice artistica del Festival?
Ho accolto l’invito con entusiasmo e molta gratitudine. Per lavoro ho sempre intercettato il mondo missionario, che è la fonte più preziosa di notizie in certi contesti. Ho conosciuto missionari e missionarie, però mai avrei pensato di essere chiamata a contribuire all’organizzazione del loro Festival. Ho accolto l’invito come un segno di restituzione per quanto mi hanno dato ed è un’avventura molto bella.
Principalmente, in cosa consiste il tuo compito?
Il mio lavoro è “sinodale”, ovvero di condivisione. Nella direzione artistica lavoro con il documentarista Alessandro Galassi: con lui abbiamo pensato il programma artistico e lo abbiamo proposto al direttore generale, a quello operativo, a chi gestisce il settore comunicazione e quello economico. Alessandro e io abbiamo pensato un Festival che esca dal linguaggio “ecclesialese” e parli a tutti e tutte con un linguaggio laico, aperto e contemporaneo.
Lo sforzo è proprio quello di esprimere in linguaggio artistico, semplice e accessibile a chi non ha familiarità con la Chiesa, i contenuti che al mondo missionario non mancano.
Cosa trovi di particolarmente interessante nel “processo” molto articolato che compone il mosaico del Festival della Missione 2022?
In effetti questo Festival è un percorso che si sviluppa in un anno di PreFestival e un anno di PostFestival, e questo gli permette di incarnarsi nella realtà. Non è uno dei tanti eventi che si celebrano dentro e fuori la Chiesa nell’arco dell’anno, ma una modalità continuativa di valorizzare i missionari e le missionarie come finestre aperte su realtà del “Sud del mondo” (in senso geopolitico), e in particolare su quelle che rimangono ai margini e nell’ombra.
La grande sfida è quella del linguaggio: prevalgono ancora generalizzazioni vaghe che non dicono più nulla alla società contemporanea, mentre alcune parole, quali “libertà di pensiero” e “patriarcato”, sono evitate perché ritenute troppo moderne. Non mi sembra opportuno neppure sottolineare che sia un “festival cristiano”, perché la testimonianza di vita è ciò che più conta.
In conclusione, c’è ancora paura a rendere il linguaggio accessibile e incisivo.
Nella realtà “maschile” e talvolta anche “patriarcale” della Chiesa cattolica italiana, avere una direttrice artistica è già una svolta…
In realtà, nell’organizzazione del Festival ci sono molte donne; siamo in tutte le commissioni, da quella di comunicazione a quella economica e di gestione. Talvolta siamo la maggioranza e siamo presenti per pensare e decidere. Letizia Gualdoni, per esempio, guida la comunicazione e Isabella Prati, moglie del direttore generale Agostino Rigon, ha accompagnato dall’inizio la realizzazione di questo “processo”.
Quali sfide inattese sono emerse in relazione al persistere del covid e all’improvvisa guerra in Ucraina?
Il covid lo avevamo messo in conto, ma la guerra in Ucraina è stata una tragedia improvvisa che rende necessario riadattare di continuo il programma, perché la guerra ha generato una grave crisi economica e alimentare a livello mondiale. Comunque il Festival non rincorre l’ultima emergenza, cerca piuttosto di approfondire le questioni e di andare alle cause.
Mi piace concludere con questo messaggio: il mondo missionario non deve spaventarsi per la sua riduzione numerica; cambiano le strutture, ma la missione rimane importante. Si tratta di trovare forme più aderenti alla contemporaneità per un presente sempre più missionario.