Tante sono le storie con nomi e volti pieni di dolore; sono fratelli e sorelle migranti di nazioni diverse che passano da Tapachula per proseguire il loro viaggio della speranza verso gli Usa. La maggioranza arriva dal Centroamerica: Honduras, Nicaragua, El Salvador, Guatemala e Haiti, ma anche da Venezuela e Colombia. Scappano dai loro Paesi per sottrarsi alla violenza, alla povertà, alla persecuzione e alla tratta di persone.
Con sorpresa abbiamo però riscontrato che in parte arrivano anche dall’Africa, in particolare dalla Repubblica democratica del Congo, dall’Angola e dalla Nigeria. In cerca di condizioni di vita migliori, investono tutto quello che hanno per mettersi in viaggio verso la “terra promessa”, e per raggiungerla rischiano anche la vita.
Timidamente si avvicinano al Centro di Fraternità Espwa (Speranza): chiedono qualche indumento, un po’ di cibo ma, soprattutto, una parola amica: sentono il bisogno di accoglienza e ascolto, di uno sguardo amorevole, e sono felici quando li salutiamo nella “loro” lingua, che per congolesi e angolani è il lingala. Quando sanno che conosciamo i loro Paesi, si aprono con fiducia e cominciano a esprimere come si sentono.
Un adolescente angolano di 14 anni è sconvolto. Mi avvicino e gli chiedo come posso aiutarlo; mi confida di aver perso il fratellino e la mamma mentre attraversavano la foresta del Panama: la corrente del fiume se li è portati via.
Un giovane papà congolese viene aggredito dai ladri e le due figlie adolescenti sono violentate davanti a lui: lo perseguita ancora il senso di colpa, perché non ha potuto difenderle; i malviventi lo avrebbero ucciso.
Una donna congolese è fuggita da un marito violento; mostra le cicatrici sul corpo: la trattava come una schiava. Io la ascolto e la abbraccio, lei scoppia in lacrime e mi ringrazia: si è sentita rassicurata e amata.
Una bambina angolana di quasi dieci anni era arrabbiata con il mondo perché sentiva tanta nostalgia delle sue sorelle rimaste in Angola.
Come comboniana mi commuovo quando arrivano al Centro Speranza persone africane. In me trovano una sorella che le consola e infonde loro fiducia per continuare il viaggio.
Mi commuove anche la gratitudine di tante persone centroamericane: pur avendo perso tutto, a volte anche la fiducia in sé, sono ricche di gentilezza e gratitudine. Ci considerano sorelle e madri che si prendono cura di loro finché non possono riprendere il viaggio.
In questi volti contemplo il volto di Cristo migrante. Tapachula è un mondo di incontri, dove puoi toccare con mano la presenza di un Dio pellegrino che continua a camminare per strade nuove e “sicure”, affinché i nostri fratelli e le nostre sorelle migranti possano realizzare il loro sogno.