Dal 1934 a Kalongo la presenza comboniana è presente con tante attività di “rigenerazione”, inclusa quella sanitaria. Dopo anni, padre Giuseppe diceva ancora, in un eccesso di umiltà: «Sette Suore comboniane costituiscono l’ossatura portante dell’ospedale». In effetti, senza la loro presenza esperta e generosa lui non avrebbe potuto farlo crescere, ma tutte le suore lo hanno apprezzato per la sua generosa e competente dedizione. E così a Kalongo è avvenuto un piccolo miracolo missionario.
Nel 1943 suor Eletta Mantiero, infermiera, inizia il servizio sanitario in un angolo della veranda delle suore, perché il dispensario non è ancora pronto. Nel 1947 padre Alfredo Malandra pone i presupposti per farlo diventare un piccolo ospedale e nel 1956 padre Ambrosoli arriva a Kalongo: trova una realtà essenziale ma ben avviata, e subito stabilisce un rapporto di fiducia reciproca con le suore infermiere.
In 30 anni, tra vicissitudini e difficoltà, riesce a trasformare quella struttura dal tetto di paglia in un ospedale di 350 posti-letto con ambulatorio, laboratorio di analisi, sale operatorie e reparti di chirurgia, isolamento per malati infettivi, pediatria, maternità, studio dentistico e anche magazzini, cucina, con orto e piccoli animali da allevare, lavanderia, guardaroba e alloggi per chi accompagna le persone malate.
Servono altri medici e suore infermiere, ma anche tecnici per manutenzioni e riparazioni, esperte di taglio e cucito per il guardaroba, e... chi sappia coltivare la terra.
La maternità e la scuola di ostetricia
Fin dall’inizio della sua attività, suor Eletta sente la necessità di formare ostetriche locali per la maternità; dopo un corso di ostetricia a Kampala, con padre Ambrosoli riesce ad avviare a Kalongo una scuola professionale, che nel 1958 il governo ugandese riconosce e suor Caterina Marchetti farà crescere dal 1965 in modo esponenziale.
Per 22 anni collabora fruttuosamente con padre Giuseppe: «Quante volte l’ho chiamato in maternità per emergenze notturne e lui entrava di corsa in sala parto con il camice sopra il pigiama…. La sala operatoria era il suo santuario: lì diventava realmente strumento di Dio per aiutare il prossimo».
Dedizione senza limiti...
Ogni giorno, il lavoro di padre Ambrosoli inizia alle 7.30 in sala operatoria e termina molto tardi. Dopo cena, dedica tempo alla preghiera, a rivedere i conti e a scrivere lettere. Talvolta, prima di ritirarsi verifica che nei reparti non ci siano altre emergenze. Uomo di fede e carità profonda, dorme pochissimo.
Anno dopo anno, il sovraccarico di lavoro e responsabilità ne logorano il fisico e nell’ottobre 1982 deve rientrare in Italia per curarsi. Con la salute fortemente compromessa, torna a Kalongo dopo molti mesi, accolto con grande gioia dal personale missionario e da tutta la gente. «In ospedale rimangono solo gli ammalati in trazione e quelli che non stavano in piedi da soli», annotano le suore.
Arriva di notte, ma la gente lo accoglie suonando campane, campanelli, tamburi e qualunque altro strumento facesse un chiasso festoso. «Sappiamo che la sua salute è seriamente minata – continua la cronaca di comunità –, sappiamo che fisicamente dovrà limitare di molto la sua attività, ma non importa. Ci basta la sua presenza di sacerdote pieno di fede e d’amore, di uomo e medico che ha dimostrato con la vita che cosa significa amare».
… anche nei tempi più bui
In quegli anni l’Uganda è dilaniata da conflitti politici e militari. Anche Kalongo, situata dove opera un gruppo di guerriglieri, viene coinvolta: incursioni, sparatorie, razzie sono frequenti e spesso inducono la popolazione a cercare rifugio alla missione e in ospedale.
Nel 1986 la cronaca riporta: «Alla sera del 4 ottobre si sentirono spari. Con padre Ambrosoli andiamo all’ospedale per aprire la porta alla gente, tenerla calma e invocare l’aiuto del Signore che ci protegga. La notte passò calma e al mattino tutti ritornarono alle loro capanne».
La situazione si aggrava, e il 7 febbraio 1987, per poter eliminare i ribelli, il governo decide di far evacuare l’ospedale e tutta la popolazione di Kalongo: tutto il personale della missione deve andare a Lira. «Volevano che portassimo via cibo e medicinali, che, se lasciati in loco, avrebbero aiutato i guerriglieri – si legge nella cronaca –. Verso le ore 15 del 13 febbraio sulla strada da Kalongo a Patongo si forma una lunga fila di automezzi pronti a partire: 34 autovetture e camion con 1.500 persone tra soldati e civili. Mentre il convoglio, lungo 2 chilometri, incominciava a muoversi, alle nostre spalle vedevamo salire una colonna di fumo nero; erano i sacchi di miglio, granoturco, fagioli, ecc. comperati in vista della fame, e rimasti là per mancanza di mezzi di trasporto, che bruciavano nei magazzini».
Oltre la fine
Nella tragedia, padre Ambrosoli riesce ancora a offrire parole di consolazione. «Il Signore è con noi», ripete a chi gli è vicino. Dopo ventuno ore di polvere, sete, angoscia, paura e tanta stanchezza, la carovana raggiunge Lira e si occupa subito degli ammalati evacuati da Kalongo.
Lasciare la missione è un dolore per tutti e per tutte, ma soprattutto per il prete-medico che aveva garantito salute e dignità a tantissime donne e uomini: per la sua competenza professionale e il suo tocco di umanità, molte persone arrivavano a Kalongo per farsi curare addirittura dal Kenya e dal Sudan.