Per pochi giorni, con la visita di papa Francesco, l’interesse internazionale si concentrò sulla Repuppica Centrafricana e sulla sua brutale guerra civile, che imperversa dal 2013, e sulla speranza di pace della gente. Tutti i media ne parlarono; poi di nuovo il silenzio.
La stessa Porta Santa veniva chiusa il 13 novembre 2016 dall’arcivescovo di Bangui, Dieudonné Nzapalainga. I media internazionali non c’erano, ma la popolazione sì, e anche un ostinato desiderio di pace.
Che cos’è cambiato nel Paese in questo Anno Santo della Misericordia?
Una spirale di vendetta lo attanaglia. A ottobre, con la conclusione dell’intervento della Francia (operazione Sangaris), gli scontri fra milizie si moltiplicano sotto gli occhi del contingente di pace dell’Onu (Minusca). A metà ottobre, a Kaka Bandoro vengono uccise trentasette persone; altre trenta a Bria. L’infiltrazione di milizie mercenarie, dell’Esercito di liberazione del Signore dall’Uganda e di altri gruppi criminali dal Sudan e dal Ciad aggrava ulteriormente la situazione.
Suor Dalva Maria Areia, responsabile delle suore comboniane che vivono nella Repubblica Centroafricana, Ciad e Camerun, ci porta fra la gente.
La situazione è molto tesa. Il Paese fa fatica a rialzarsi dal caos della guerra civile, iniziata nel 2013 dai ribelli Séléka. L’intervento dei militari francesi, con l’operazione Sangaris, ha limitato i massacri, ma non è riuscito a garantire la sicurezza. Le violenze imperversano.
Il 24 ottobre scorso nella capitale, Bangui, gruppi della società civile centrafricana hanno protestato contro il contingente di pace Minusca, accusato di passività e, addirittura, di complicità con i gruppi armati, nonché di sfruttamento sessuale di minori. In effetti, massacri e stragi ricorrono dove operano i caschi blu. Per quella protesta, Bangui ha pianto quattro morti e quattordici feriti.
La strage del 13 ottobre a Kaga-Bandoro, nel centro del Paese, è una ferita aperta. Ho potuto accompagnare monsignore Nzapalainga nella visita di solidarietà al vescovo di Bandoro, organizzata dalla Piattaforma interreligiosa che promuove il dialogo e la riconciliazione.
Quasi ventimila rifugiati hanno trovato riparo attorno al campo Onu. Molte famiglie hanno nuovamente perso tutto. Anche chi presta servizi umanitari ha subito aggressioni; donne, bambini e anziani soffrono di più.
A partire dal quartiere Bisingale, a pochi chilometri da Bandoro, tutte le case sono disabitate. Il quartiere “Manque pas”, dietro casa nostra, è completamente bruciato. Chi non poteva fuggire è morto fra le fiamme; altre persone sono state massacrate senza pietà. Che desolazione!
Dalle immagini satellitari risultano distrutte quasi duecento case e cinquecento capanne. Anche le strutture della parrocchia e la piccola clinica sono state saccheggiate. Per la presenza di gruppi armati, ex Séléka e Anti-balaka, la circolazione di persone e merci è molto rischiosa.
La sera del nostro arrivo, monsignor Dieudonné, io e le suore di Bandoro siamo state scortate dai militari Minusca. Eppure, secondo un’organizzazione a difesa dei diritti umani, a Kaga-Bandoro le violenze sulla popolazione civile sono state perpetrate proprio sotto gli occhi dei caschi blu del contingente Onu. Testimoni oculari hanno raccontato che questi non hanno impedito a sessanta miliziani Séléka di passare il ponte e attaccare i civili.
I due vescovi cattolici, con il pastore protestante e un rappresentante musulmano, hanno incontrato la gente, le autorità locali, il viceprefetto, il sindaco della città, gruppi armati Séléka e Anti-balaka, gli agenti umanitari e la comunità islamica. Occasione per ascoltare, per capire come si sono svolti gli avvenimenti, per raccogliere la sofferenza dei rifugiati e anche per proporre azioni concrete.
E non è mancata una parola di incoraggiamento, perché la pace non verrà dal di fuori, né dalle forze armate, ma dall’impegno fattivo della gente, tutta insieme.