Martedì, 06 Luglio 2021 13:32

La scrittrice che dà voce alle “seconde generazioni”

Sabrina Efionayi, 21 anni, è una scrittrice italiana di origine nigeriana. Cresciuta con il peso della discriminazione, vittima di uno sguardo che l’ha fatta sentire diversa per il colore della pelle, Sabrina ha iniziato a scrivere alle scuole superiori con lo pseudonimo di “Sabrynex”, raccontando storie di ragazze bianche, lontane dalla sua verità. Scoperta dalla casa editrice Rizzoli, ora vuole dare voce alla sua storia e a quelle delle seconde generazioni che lottano per i diritti.

Sono nata a Castel Volturno nel 1999 da madre nigeriana ma cresciuta in una famiglia napoletana a cui sono stata affidata a pochi giorni dalla nascita. Studentessa in Culture digitali e della comunicazione presso l’Università Federico II di Napoli, mi sono sempre interessata ai temi della discriminazione, razzismo e disuguaglianze sociali. A sedici anni ho iniziato la pubblicazione dei miei tre romanzi per la Rizzoli, OVER (2016) OVER 2 (2016) e #TBT Indietro non si torna (2017). Ho deciso successivamente di lasciare i romanzi young adult e di cimentarmi in una scrittura più realistica e autobiografica, che possa dare voce per i ragazzi italiani nati da genitori stranieri che non vengono riconosciuti in quanto tali.

I primi anni a Castel Volturno
Sono nata a Castel Volturno alla fine degli anni ’90, e quando lo dico sembra quasi surreale, come se da quell’anno ad oggi non potesse uscire nulla di buono da quel luogo: neppure la vita stessa. Sono nata e cresciuta in un Paese che è nato prima di me, ma è cresciuto in me come un fiore, che ho coltivato e amato per tutta la vita finché non mi è stato rivelato che non mi apparteneva. Nascere in Italia e lasciare che l’Italia nasca in te, per poi venir strappata via. Ho passato la maggior parte della mia vita spostandomi tra Castelvolturno e Napoli, dove abitano i miei nonni materni; materni da parte di una madre bianca italiana che mi ha presa con sé e amata da quando ero una bambina.

Sono nata con la pelle nera in un contesto principalmente bianco, dal mio cugino più piccolo al mio zio più lontano. È da bambina che godevo della mia piena innocenza, e dell’innocenza del mondo che mi circondava: è facile sentirsi uguale agli altri, quando nessuno ti dice che sei diverso. Crescendo, quella stessa innocenza inizia a macchiarsi perché ti vedi riflessa negli sguardi altrui. Frequentavo le scuole medie a Scampia, abitavo con mia nonna ed è lì che ho iniziato a capire cosa significasse avere la pelle nera.

Discriminazione tra i banchi
Le insegnanti che mi chiedevano se preferissi il termine “nera” o “di colore” o addirittura “neg*a”. È facile pensare che non ci fosse nulla di male in quella domanda, ma, dentro, mi chiedevo perché fosse necessario chiedermelo.
Era la prima volta che qualcuno mi chiedeva apertamente se volessi essere chiamata “neg*a”, e io non sapevo nemmeno perché quella parola mi ferisse così tanto. Non me l’hanno mai posta come una decisione mia, me l’hanno sempre gettata addosso come acqua gelata quando fuori fa già freddo. Tra una occasione di estraniamento totale all’altra ho trovato una risposta a tutte le domande che non sapevo di star chiedendo al mondo. Ho trovato, quasi per caso, la scrittura; quasi per caso perché non la stavo cercando, o almeno non sapevo di star cercando qualcosa che potesse farmi sentire in qualche modo reale e in pace con me stessa. Volevo essere al centro delle storie che scrivevo, pur consapevole di non essere mai stata la protagonista della mia stessa vita. Sentivo la necessità di raccontare qualcosa che non facesse male, o, se proprio doveva far male, il finale doveva essere dei più belli e tutti dovevano trovare l’amore.

Storie di ragazze bianche
Iniziai a scrivere e pubblicare i miei romanzi online sotto lo pseudonimo di Sabrynex, durante i primi anni delle scuole superiori. I miei romanzi si ambientavano negli Stati Uniti o nel Regno Unito, l’Italia non la sfioravano mai. Per me era importante che le parole fossero le mie, ma che la storia non avesse nulla a che vedere con me e con le mie verità. Io e i miei libri non avevamo nemmeno le stesse paure. Le protagoniste dei miei tre romanzi si distinguono in piccoli cosmi: sono bionde, alcune more, con gli occhi verdi e altre azzurri.

L’unica cosa che le accomuna è che hanno tutte un privilegio che io stessa non sapevo di star disegnando loro: il colore della pelle, bianco come solo io potevo immaginarlo, bianco come tutto ciò che non sono e non sarò mai – per fortuna o meno, l’avrei scoperto solo negli anni a venire dopo la pubblicazione. Scrivere dei romanzi che non abbiano nulla a che fare con l’autore non è una novità, ma ciò che ho analizzato in questi anni è che non ho mai provato a descrivere qualcosa che potesse essere diverso. Le mie storie raccontavano d’amore tra ragazzi, cuori spezzati, famiglie distrutte, dipendenze, e ogni sorta di dramma su cui la mia fantasia potesse tranquillamente sbizzarrirsi. Racconti e situazioni che non ho mai provato: non sapevo nemmeno cosa fosse l’amore mentre descrivevo un bacio.

Guardandomi intorno ora, mi rendo conto di aver sempre evitato quella che era la storia più importante, più vera, più avvincente e, a tratti, anche più drammatica: la mia. La Rizzoli mi ha chiesto di pubblicare il mio primo romanzo OVER quando avevo ancora solo quindici anni e tutto un universo da scoprire.
Il mio vecchio editore trovò il romanzo online, sulla piattaforma denominata WATTPAD, e dietro quelle righe c’era solo il nome Sabrynex. Non c’era un vero nome, non c’era un’età, non c’era una cultura, non c’era una foto, non c’era un sesso. Era solo un nome, uno nome qualsiasi, che era riuscito ad ottenere quattro milioni di letture su una community letteraria dove chiunque poteva scrivere qualsiasi cosa gli passasse per la testa e liberarsi attraverso la scrittura.
Il giorno in cui sono diventata scrittrice

Sono arrivata a Milano per incontrare il mio editore con le mie due mamme, una nera che mi ha dato la vita, una bianca che dà la vita per me ogni giorno. Sono stata affidata ad una famiglia banca italiana quando avevo solo undici giorni. Il mio editore si è trovato di fronte a tutti quei colori e ha intuito che c’era una storia più grande da raccontare, ma capiva anche che non era ancora il momento giusto per farlo.
Il mio ultimo romanzo per la Rizzoli è stato #TBT Indietro non si torna – pubblicato nel giugno del 2017 – e ha messo una fine momentanea al mio percorso da autrice. Ho affrontato lì il tema dell’abbandono di una madre, anche se nel mio caso è vissuto in modo un po’ meno comune, era importante per me aprire uno spiraglio sul dolore e sulle responsabilità che si hanno una volta adulti.
Ho deciso di fermarmi con la scrittura perché quando sei troppo giovane e ti vedi investita da tante responsabilità, che le pubblicazioni prevedono, hai bisogno di una pausa e respirare. La scrittura mi ha aiutato a capire chi sono, i libri e gli scrittori mi hanno insegnato che non sei solo e che sentirsi un estraneo è da tutti ma non per questo è normale e va bene così. Puoi fare qualcosa per cambiare, per farlo capire agli altri, e stare zitti non è mai la decisione giusta: qualsiasi sia il tuo posto, qualsiasi sia il tuo nome.

Ora, a ventuno anni, sto scrivendo un romanzo che parla delle mie paure, che parla la mia stessa lingua, che parla del viaggio di mia madre diciottenne dalla Nigeria all’Italia, che parla dei sacrifici, delle mie ferite e di tutte le persone nate in questo Paese che si sono viste strappate via un fiore che gli apparteneva.

Fonte

Last modified on Martedì, 06 Luglio 2021 13:43

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