A chi oggi misconosce il significato e il valore del cammino iniziato il 25 marzo di sessant’anni fa a Roma, possiamo opporre i tantissimi traguardi raggiunti e altrimenti impossibili, ma io ne scelgo uno tra tutti: dalla firma di quei Trattati è iniziato un periodo di pace fra i popoli europei che l’hanno intrapreso, un periodo di pace che dura da sessant’anni e che non ha precedenti nella storia europea. Quell’atto fondativo diede inizio a ciò che è diventata oggi l’Unione europea, un processo di integrazione unico al mondo che si è sempre allargato fino a comprendere 28 Stati membri: ha consentito di abbattere muri e confini, unendo diversità che da sempre avevano “regolato” i loro conflitti con la guerra.
A sessant’anni dall’inizio di questo straordinario cammino, il referendum inglese sulla Brexit ha decretato per la prima volta l’uscita di uno Stato membro, il Regno Unito. Al contempo, stanno crescendo in tutto il continente le pressioni di populismi multiformi di matrice anti-europea, che, lucrando sul clima di insicurezza, sull’onda lunga della crisi economica, predicano la convenienza della disgregazione dell’Unione europea.
Il cammino di integrazione è messo in discussione, dopo la più lunga crisi che dal dopoguerra abbia colpito l’economia europea. I padri costituenti dell’Europa, che nel Manifesto di Ventotene sognarono questa integrazione e gettarono le basi dei Trattati di Roma, avevano già indicato la via per uscire dalle crisi che si fossero parate di fronte al nostro cammino: la via del principio di solidarietà, l’approfondirsi progressivo della solidarietà politica fra i popoli europei, mediante istituzioni comuni che incarnino questa solidarietà, fino ad arrivare agli Stati Uniti d’Europa.
Un salto di solidarietà
Proprio alla vigilia dell’anniversario dei Trattati di Roma, siamo di fronte alla necessità di un nuovo “salto in avanti” nel processo d’integrazione politica europea, ispirato a quel principio di solidarietà europea già iscritto nei Trattati. Altrimenti l’Unione non resisterà al dilagare degli effetti della globalizzazione economica. Le crisi multiple, economica, sociale e migratoria, che rendono inquieti i popoli europei possono essere affrontate e governate solo affrontandole solidalmente come farebbe uno Stato federale di 500 milioni di abitanti.
La malattia che oggi sta impedendo di fare questo salto si chiama crisi di solidarietà. Il tema emblematico è proprio la crisi migratoria e dei rifugiati. Uno “Stato federale” di 500 milioni di abitanti non può temere l’arrivo di un milione di profughi, non può esimersi dalle proprie responsabilità di fronte a 63,5 milioni di persone nel mondo fuggite dal proprio Paese e in larghissima maggioranza ospitate dai Paesi limitrofi alle aree di conflitto.
È la crisi di solidarietà fra i membri dell’Unione a rendere ingovernabile questa crisi: la gestione dei flussi migratori è uno dei più importanti banchi di prova di fronte al quale si trova oggi l’Europa.
Un fenomeno, quello dell’immigrazione, che, per la dimensione che ha raggiunto negli ultimi decenni, può essere affrontato solo attraverso una solidarietà reale tra gli Stati membri, con una politica di accoglienza comune ed agendo insieme sulle cause profonde che l’hanno determinato.
Serve una visione d’insieme che unisca solidarietà interna, come condivisione di responsabilità tra gli Stati, e solidarietà esterna, attraverso un rilancio della cooperazione allo sviluppo. Un traguardo indicato dal Parlamento europeo nella risoluzione sulla Situazione nel Mediterraneo e la necessità di un approccio globale dell’Ue in materia di immigrazione, approvata nell’aprile del 2016 e di cui sono stata relatrice.
L’Europa deve compiere questo passo in avanti, con l’integrazione politica verso gli Stati Uniti d’Europa.
Questa sfida sia colta come un’opportunità: solo così potremo fare di questo 25 marzo una vera festa. La festa per la nascita di una nuova Europa. Solidale.