C’è una frase di Hélène Cixous che funziona dentro di me (come a volte capita) tanto da esame di coscienza quanto da motore di una permanente curiosità: «Pertanto, resisto alla chiusura, qualunque essa sia, che sia donna o lingua».
È un movimento di resistenza, perché la tendenza istintiva, almeno la mia, è a circoscrivere, a definire, a classificare… La storia culturale e sociale del nostro Occidente, almeno negli ultimi tre secoli, ha coltivato una razionalità classificatoria, dall’invenzione delle enciclopedie nel Settecento fino all’odierna “necessità” di definire sé stessi e dare nomi (che chiudono) persino alla fluidità di identità, di genere, di orientamento.
Pratiche e parole
Le parole chiudono, le pratiche sfondano, costringendo le parole a cercarsi di nuovo, a imparare nuovi suoni: se c’è una lezione che le donne hanno imparato nella loro storia recente in Occidente, è proprio questa.
Peraltro, donne e uomini cristiani non dovrebbero stupirsi di questo: un Signore e Maestro che non ha scritto nulla e i cui discepoli hanno dovuto scrivere 4 diversi Vangeli per narrare un’unica vita, e una Chiesa che ha “resistito” sempre alla riduzione dei 4 a uno solo; uno Spirito del Signore che ispira e regge le parole e insieme la creatività e pluralità di doni imprevedibili; una storia di santi i cui seguaci hanno sempre per mano una Regola da un lato e una biografia dall’altro (e sempre una tensione tra le due)… Come non vedere che lo sfondamento diventa la legge che rende necessarie parole impossibili perché la vita le possa attraversare e di volta in volta farle rinascere?
Anche per la “dottrina”, come ci ha mostrato il Concilio Vaticano II, vale la legge che «se il chicco di grano non muore…».
Dialogo…
Come donne abbiamo imparato che anche le parole sono pratiche e vita: spiegare e chiamare le cose in modi diversi è pratica che sfonda. A una condizione, però: che la parola sia detta non come atto di possesso della realtà e di dominio, ma come gesto di uscita da sé, come sforzo sull’abisso che rende disponibile all’altro ciò che sento, vedo, capisco. Parlare diventa sempre esercizio di dialogo e di ascolto, è rendersi fragili perché mostra e autorizza l’altro a dire, a dissentire, a negare o a consentire. Parlare e scrivere è affidamento fondamentale, nel quotidiano come nell’accademico.
Anche per questo abbiamo scritto queste pagine, anche per questo insegno e traffico parole e concetti, scrivo articoli e libri e tengo conferenze: per resistere alla chiusura, perché le donne hanno troppo a lungo taciuto (sono state costrette a tacere?), confinate in pratiche mute. Cerco e cerchiamo parole autorevoli nella teologia e non solo, non per sostituire un dominio della realtà con un dominio diverso, ma per mostrare che si può parlare con il senso di responsabilità di definire, consapevoli di affidare una parzialità alla vita comune, di uomini e di donne, perché la realtà ci superi e ci smentisca.
Anche qui non dovrebbero troppo stupirsi le cristiane e i cristiani, discepoli di Colui che credono essere la Parola incarnata in un corpo che ha vissuto nel tempo, in una parzialità storica. Dalla storia della Chiesa e dalle nostre esperienze sappiamo quale fatica e ambiguità la fedeltà a questa Parola richieda, sappiamo come e quanto serva creatività per questa fedeltà che deve inventarsi sempre diversa per essere seriamente uguale.
… e acrobazie
Resistere alla chiusura è dunque pericoloso e lieto esercizio di equilibrismo tra parole e pratiche, tra definire e sfidare, tra l’assunzione di responsabilità che dice «io sono qui» e il riconoscimento di fragilità che dice «tu hai il diritto di essere diverso e questo mi riguarda». D’altra parte chi cerca esseri umani troverà acrobati, come scrive saggiamente Peter Sloterdijk.