Avrete visto l’apertura della 27° Conferenza delle parti sul cambiamento climatico, detta Cop27:
delegazioni di organismi internazionali, rappresentanze dei governi e delle grandi ong ... una passerella di celebrità.
Io ve la presento da un’altra prospettiva: quella dei popoli indigeni e delle comunità “marginali”.
Nell’area C dell’immenso spazio riservato alla Cop, anche loro hanno allestito uno spazio per i loro incontri. È sobrio ma ben curato. Lì aborigeni dell’Australia e indiani del Canada e degli Usa si incontrano con chi rappresenta i popoli del Ciad o dell’Amazzonia. Spesso vestono abiti tradizionali, molte volte sono donne, sempre esprimono una sofferenza che rasenta la disperazione perché, paradossalmente, sono vittime anche delle pratiche che inneggiano alle nuove tecnologie per contrastare il disastro climatico.
La buona notizia, però, è che hanno una determinazione meravigliosa, e rivendicano per le loro conoscenze ancestrali la stessa dignità delle scienze moderne. Anzi, quelle hanno un distillato millenario di validazione, mentre le scienze moderne vantano al massimo qualche secolo di verifiche sperimentali.
Anche l’innovation hub, ovvero quell’ambito che cerca nell’innovazione la soluzione al riscaldamento del Pianeta, ammette che senza l’ascolto di quelle conoscenze ancestrali non si faranno progressi.
Sono proprio i popoli indigeni e le comunità già travolte dagli incalzanti disastri ambientali che possono davvero contribuire a un cambio di prospettiva: la soluzione non verrà tanto dalle nuove tecnologie verdi quanto dall’ascolto della sapienza di questi popoli, che non parlano di violazione dei loro diritti, ma di violazione dei diritti di tutti gli esseri viventi e anche non, come le pietre e l’acqua, perché tutti sono connessi.
In attesa dei progressi di Cop27, è già da apprezzare la voce, convinta e rispettosa, delle popolazioni che la Terra la rispettano... da sempre.