Il 3 dicembre 2018 non era certo iniziata sotto i migliori auspici, con il padrone di casa, la Polonia, a difendere le proprie centrali a carbone altamente inquinanti. Ma gli ostacoli più insidiosi sono stati frapposti dai grandi produttori di petrolio e gas: Stati Uniti, Arabia Saudita, Kuwait e Russia. Hanno svalutato l’ultimo rapporto del Comitato intergovernativo sui cambiamenti climatici dell’Onu (Ipcc), il consesso scientifico internazionale che studia gli effetti del cambiamento climatico, perché indicava la necessità di limitare il riscaldamento globale entro 1,5 °C per contenere al meglio i disastri ambientali già in atto. Anche il Brasile, che non intende proteggere le sue immense foreste, ci ha messo del suo. Gli interessi economici di pochi hanno prevalso sul disperato appello di tanti: le isole della Micronesia, che rischiano di scomparire, i Paesi dei tropici, esposti a una desertificazione mortale.
Il compromesso al ribasso è stato raggiunto all’indomani della “data conclusiva” dell’evento. A tarda sera, il 15 dicembre, 197 Paesi hanno sottoscritto modi e tempi per realizzare gli impegni nazionali di ciascuno, ma si limitano a contenere il riscaldamento climatico globale entro 2 °C. Altri nodi rimasti irrisolti sono rinviati alla prossima conferenza: riguardano anche i trasferimenti di risorse, in particolare finanziarie, ai Paesi più vulnerabili, per mitigare i danni ambientali e accelerare la transizione energetica.
Varie organizzazioni internazionali, fra cui Greenpeace e Cidse, la rete internazionale di organizzazioni di sviluppo cattoliche, hanno espresso il loro disappunto: da Cop 24 non è emerso alcun impegno concreto a contenere il riscaldamento climatico sotto la soglia critica di 1,5 °C e il documento finale evita ogni esplicito riferimento ai diritti umani e alla sicurezza alimentare. I governi non si sono assunti le proprie responsabilità.
Jennifer Morgan, direttrice esecutiva di Greenpeace International, ha sostenuto che: «definire regole comuni è ancora possibile nonostante la turbolenta situazione geopolitica», e tali regole, che dettano azioni vincolanti soggette a periodica valutazione, sono essenziali per realizzare l’Accordo di Parigi. Eppure l’evidenza scientifica non è bastata a motivare un cambiamento più coraggioso; l’umanità è sull’orlo di un baratro, ma l’urgenza di frenare la corsa non è avvertita. Il trasferimento di risorse dai Paesi più ricchi e inquinanti a quelli più vulnerabili richiede una lungimiranza e una sensibilità per la “casa comune” che molti politici non hanno, perché il loro sguardo non spazia oltre l’orizzonte ristretto dell’interesse nazionale di chi li elegge.