Risorse che scompaiono
Sul piano delle risorse, un tempo quelle energetiche destavano maggiore preoccupazione, ma, da quando abbiamo capito che dobbiamo tagliare il cordone ombelicale con i combustibili fossili, il petrolio non è più un assillo. Altre risorse ci mettono in fibrillazione. In particolare l’acqua, che non è importante solo per bere e tenerci puliti, ma per tutti i settori produttivi. Quello agricolo prima di tutto: esso assorbe il 70% di tutta l’acqua utilizzata a livello planetario, mentre il settore industriale ne assorbe il 22%. Per stessa ammissione della Banca Mondiale, l’acqua sarà la risorsa che metterà fine ai sogni di gloria della crescita infinita. In un rapporto del 2016, l’istituto riconosce che già un miliardo e 600 milioni di persone – un quarto dell’umanità – vive in condizione di penuria d’acqua e il loro numero potrebbe raddoppiare entro il 2040.
A rendere difficile la situazione è il divario crescente fra acqua richiesta e acqua disponibile. Si stima che nel corso dei prossimi trent’anni la richiesta globale di acqua aumenterà del 40-50% nel settore alimentare, del 50-70% nel settore civile e industriale, e dell’85% in quello energetico. Una prospettiva insostenibile che, secondo la Banca Mondiale, «in alcune regioni del mondo porterà i tassi di crescita in zona negativa con crolli del prodotto interno lordo fino al 6% da qui al 2050».
Rifiuti che si accumulano
Sul piano dei rifiuti, l’anidride carbonica è quella che ci fa più paura perché il suo accumulo sta facendo cambiare il clima. Ma non va sottovalutata neppure la plastica, perché risulta indistruttibile. Se bruciata, produce inquinanti che rendono insalubre l’aria che respiriamo; se dispersa nell’ambiente, invade il mare e le falde acquifere. Da una ricerca pubblicata nel marzo 2018 dall’organizzazione giornalistica Orb Media, su 153 campioni di acqua potabile delle principali città del mondo, l’83%, compresa l’acqua dei rubinetti del Congresso degli Stati Uniti e della sede dell’Agenzia per la protezione dell’ambiente a Washington, contengono microscopiche fibre di plastica.
Copiare la natura?
Governi, economisti e imprese riconoscono che bisogna fare qualcosa per ridurre il consumo di risorse e la produzione di rifiuti, ma, convinti come sono che l’umanità abbia l’obiettivo di produrre e consumare sempre di più, il loro concetto di sostenibilità si traduce nel principio di “efficienza”: generare prodotti che incorporino meno energia e meno risorse.
Pensano che dovremmo sfruttare meglio i processi biologici e imparare a produrre imitando il sistema vivente. Oggi, per ottenere certi materiali bisogna utilizzare delle temperature elevate, mentre gli esseri viventi riescono a sintetizzarli a temperatura corporea. Ernie Robertson, del Biomass Institute, cita il caso del materiale calcareo. Per trasformarlo in materiale da costruzione, bisogna triturarlo e cuocerlo a 1.500 gradi. La gallina, invece, lo trasforma in guscio d’uovo, peraltro assai più resistente, a soli 37 °C.
L’effetto rimbalzo
Se utilizzata in maniera intelligente, la scienza può aiutarci senz’altro a razionalizzare la produzione, ma se non ci liberiamo dall’ossessione della crescita rischiamo di trasformare la tecnologia in un secchio bucato. Molti economisti fanno notare che non vale a nulla fabbricare prodotti più leggeri se contemporaneamente se ne sfornano di più. Lo aveva capito anche William Stanley Jevons, economista inglese di fine Ottocento. Il suo punto di osservazione erano le caldaie a vapore: la tecnologia migliorava, ogni anno se ne producevano di più efficienti, il consumo di carbone avrebbe dovuto diminuire e diminuiva infatti a livello di singola caldaia, ma aumentava a livello di Paese perché aumentavano le caldaie in circolazione.