Al temine di serrati negoziati, la Cop26 si è conclusa con l’adozione del Glasgow Climate Pact. Tra le questioni più divisive e impegnative in termini della ricerca di un compromesso, vi è stata sicuramente quella relativa alla finanza climatica internazionale.
Su questo tema la principale linea di divisione nei negoziati della Cop26, così come nella storia di tutte le altre conferenze ONU sul clima, è rappresentata in primo luogo dagli interessi spesso divergenti tra paesi sviluppati, da un lato, e paesi in via di sviluppo e paesi poveri dall’altro.
In particolare, quest’ultimi, tra le varie cose, chiedevano di inserire nel testo finale sistemi specifici di monitoraggio per rendere gli impegni presi da parte dei Paesi donatori meno vaghi. Inoltre, questi Paesi chiedevano di aumentare la quota dei fondi per l’adattamento e fondi specifici per i danni e le perdite già causati dal cambiamento climatico. Alcune di queste richieste, per il modo in cui venivano dettagliate a livello tecnico e formulate nella proposta di testo della decisione da adottare, hanno incontrato l’opposizione di alcuni Paesi, occidentali e non solo.
A che punto eravamo?
L’Accordo di Parigi, il trattato adottato nel 2015 che ha stabilito il regime giuridico internazionale per la regolamentazione del cambiamento climatico nel periodo post-2020, dispone che i Paesi sviluppati sono tenuti, in maniera vincolante, a fornire risorse finanziarie per assistere i Paesi in via di sviluppo sia per la mitigazione sia per l’adattamento, mentre altri Paesi sono solo incoraggiati a farlo (art. 9.1 e 9.2). Gran parte della questione del contendere in ambito di finanza climatica alla Cop26 era su come sostanziare questa disposizione.
Già alla Cop15 di Copenaghen nel 2009 era stato stabilito l’obiettivo a carico dei Paesi sviluppati di mobilitare collettivamente 100 miliardi di dollari all’anno entro il 2020 da fonti sia pubbliche che private. L’impegno era stato poi formalizzato in ambito Unfccc attraverso gli Accordi di Cancún alla Cop dell’anno successivo, per poi essere reiterato durante la Cop21 di Parigi che ne estese il limite al 2025.
Non vi è un meccanismo di monitoraggio istituzionalizzato che controlli l’avanzamento dell’impegno preso, ma l’Ocse periodicamente pubblica il report più attendibile sulla mobilitazione dei finanziamenti da parte dei Paesi creditori, considerando sia i canali bilaterali che quelli multilaterali. A partire dal 2013 l’impegno non è mai stato rispettato. I dati disponibili più recenti si riferiscono al 2019 quando i finanziamenti mobilitati ammontavano a 79,6 miliardi di dollari. L’anno precedente, nel 2018, i finanziamenti erano pari a 78,9 miliardi, rispetto ai 71,2 nel 2017 e ai 58,6 nel 2016. L’ammontare più basso risale al 2015, quando sono stati mobilitati appena 44,6 miliardi di dollari.
Il rispetto dell’obiettivo dei 100 miliardi di dollari ha un valore più simbolico che effettivo. Si tratta, infatti, di un requisito minimo, essendo in realtà necessari trilioni anziché miliardi per intraprendere una transizione giusta verso un mondo decarbonizzato, a emissioni nette zero e resiliente al cambiamento climatico. L’obiettivo inizialmente concordato a Copenaghen serviva dunque in primo luogo a concorrere alla costruzione di una relazione di fiducia basata sulla solidarietà internazionale tra Paesi più vulnerabili, ma meno responsabili della crisi climatica, e Paesi con maggiori dotazioni economico-finanziarie che nella gran parte dei casi corrispondono anche a quelli maggiormente responsabili, in termini storici o attuali, dell’alterazione del clima.
I Paesi in via di sviluppo, potenziali beneficiari del fondo, chiedevano un piano di consegna che indicasse l’ammontare e le tempistiche relative al fondo da 100 miliardi di dollari, dato che i Paesi sviluppati negli anni precedenti non erano riusciti a rispettare l’impegno preso.
Nelle settimane che hanno preceduto la Cop26 e durante i primi giorni della conferenza, un certo numero di Paesi ha annunciato nuovi impegni finanziari per il clima.
L’Italia lo ha fatto al vertice del G20 di Roma, del quale aveva la presidenza. In quell’occasione il presidente del Consiglio Mario Draghi ha annunciato la decisione di triplicare l’impegno finanziario per il clima portandolo a 7 miliardi nei prossimi 5 anni (1,4 miliardi all’anno). Nella dichiarazione finale i membri del G20 hanno inoltre ribadito la volontà di rispettare l’impegno già assunto relativo al fondo da 100 miliardi da destinare ai Paesi in via di sviluppo.
In vista della conferenza delle Nazioni Unite sul clima, gli Stati Uniti hanno poi promesso 11,4 miliardi di dollari all’anno entro il 2024, oltre a 3 miliardi di dollari specificamente per l’adattamento climatico. Il Regno Unito, co-presidente della Cop26, ha dichiarato che intende raddoppiare i suoi finanziamenti per il clima a 11,6 miliardi di dollari tra il 2020 e il 2025. Il Canada ha annunciato un raddoppio del suo sostegno finanziario per il clima a 5,3 miliardi di dollari tra il 2020 e il 2025. E lo stesso hanno fatto altri Paesi.
Cosa è stato deciso a Glasgow
L’accordo finale – il Glasgow Climate Pact – rileva con “profondo rammarico” (deep regret) che i Paesi ricchi hanno mancato l’obiettivo fissato per il 2020 di fornire 100 miliardi di dollari all’anno per aiutare i Paesi in via di sviluppo e li impegna a raccogliere una cifra almeno pari a tale importo, ogni anno, fino al 2025.
Inoltre, ai Paesi sviluppati viene chiesto di “almeno raddoppiare” il loro sostegno collettivo alle misure di adattamento entro il 2025 rispetto ai livelli del 2019, in modo tale da aiutare i Paesi in via di sviluppo a prepararsi ad affrontare gli impatti negativi del cambiamento climatico già in atto.
Ciò implicherebbe che i finanziamenti per l’adattamento potrebbero aggirarsi intorno ai 40 miliardi di dollari all’anno, rispetto ai 20 miliardi di dollari del 2019. Considerato che attualmente solo circa il 25% dei finanziamenti internazionali per il clima va a sostenere misure di adattamento si tratta di un reale miglioramento, che tuttavia anche se rispettato non è del tutto sufficiente a coprire il reale fabbisogno di investimenti di cui avrebbero bisogno i Paesi poveri. Si tratta però di un importante segnale politico in vista di negoziati futuri.
La previsione di fondi e meccanismi specifici per compensare quei Paesi e quelle comunità che hanno sofferto perdite e danni (loss and damage), causati dal cambiamento climatico, ha creato molte divisioni durante i negoziati. Il testo della decisione finale “esorta” (urges) i Paesi sviluppati a fornire “un supporto rafforzato e aggiuntivo” nonché assistenza tecnica ai Paesi colpiti da perdite e danni. Mancano però l’individuazione di un chiaro processo e di un meccanismo specifico. I Paesi in via di sviluppo proponevano l’istituzione di un fondo autonomo, che però è stato bocciato anche da Stati Uniti, Unione europea e Australia.
Il testo finale prevede solamente – ma per la prima volta – l’avvio di un “dialogo” per i prossimi due anni sulla creazione di un organismo volto a fornire assistenza tecnica e finanziamenti a favore dei Paesi colpiti.
Dal settore privato al finanziamento della transizione energetica
Nella prima settimana di Cop26, si sono susseguite numerose dichiarazioni politiche e annunci di formazioni di alleanze nella maggior parte dei casi non soggette a decisioni vincolanti.
Tra questi, circa 500 società di servizi finanziari globali hanno dichiarato la propria volontà di allineare 130 trilioni di dollari – circa il 40% delle attività finanziarie mondiali – con gli obiettivi stabiliti nell’accordo di Parigi, incluso quello di limitare l’aumento della temperatura media globale entro 1,5°C.
Il coinvolgimento del settore privato è particolarmente importante dato che gli investimenti necessari per rendere più verde l’economia globale superano di gran lunga i fondi pubblici disponibili. Il settore privato deve diventare dunque un partner fondamentale nel processo di decarbonizzazione dell’economia e di transizione ecologica. Seppur non vincolanti, le dichiarazioni fatte vanno nella giusta direzione.
Inoltre, un altro aspetto fondamentale riguarda il finanziamento della transizione energetica. A questo riguardo è importante segnalare che il documento finale chiede di porre termine ai sussidi “inefficienti” ai combustibili fossili, senza però specificare una tempistica entro la quale ciò dovrà avvenire.
Il governo italiano ha poi aderito alla Global Energy Alliance, un fondo da 10 miliardi di dollari che comprende altri Paesi e istituzioni finanziarie internazionali volto ad accelerare una transizione più equa verso l’energia rinnovabile nei Paesi in via di sviluppo.
Gli sforzi per combattere il cambiamento climatico e accelerare la transizione verso un’economia a basse emissioni di carbonio pongono delle sfide su come distribuire i costi tra Paesi in modo equo e senza trasferirli irresponsabilmente sulle generazioni future. Arrivare a soluzioni che soddisfino tutti gli attori coinvolti non è cosa semplice.
Le decisioni relative alla finanza climatica assunte alla Cop26 rappresentano in alcuni casi un progresso, come quello relativo ai fondi per l’adattamento. Tuttavia, rispetto alla magnitudine della crisi climatica è necessario fare molto di più.