Fino alla fine dell’Ottocento, i rifiuti erano pochi e venivano spesso riutilizzati: con gli scarti di cibo si nutrivano gli animali, e gli oggetti in metallo venivano recuperati con destrezza. Anche durante la prima rivoluzione industriale prevaleva la cultura del recupero. La seconda rivoluzione, da metà del secolo scorso, con la diffusione della plastica, ha invece generato prodotti difficili da smaltire e riutilizzare. Il passaggio da una società frugale e semi-agricola ad una post-industriale e consumista ha generato la piaga dei rifiuti non biodegradabili. E la cultura dell’usa e getta ha fatto il resto: una crescita esponenziale di scarti, spesso tossici e altamente inquinanti.
La più recente era tecnologica ha poi generato rifiuti elettronici e informatici, che vengono accatastati in megapattumiere, spesso relegate in Africa. E immense quantità di rifiuti galleggiano anche in mezzo agli oceani. Nel Pacifico le correnti d’acqua le hanno sospinte da Usa e Giappone, concentrandoli in un’isola-spazzatura di estensione doppia rispetto alla superficie statunitense.
Purtroppo il degrado ambientale da inquinamento costringe anche milioni di persone a lasciare la propria terra.
Verso un’economia circolare
La natura ricicla tutto ciò che produce per generare altra vita. Una circolarità di cui è emblema il letame, che diventa un prezioso humus per rendere fertile la terra.
La nostra economia, invece, detta “lineare”, consuma tante risorse naturali e umane per generare rifiuti e scarti, anche di persone. Basti pensare all’effetto della spesa al supermercato: non appena torniamo a casa, metà di quanto acquistato diventa una montagna di rifiuti, che si chiamano imballaggi e super-imballaggi.
Occorre sostituirla con un’economia circolare, dove il “rifiuto” non costituisce più un ingombro di cui sbarazzarsi bensì una risorsa, e dove il paradigma dell’”usa e getta” fa spazio alla circolarità di vita dei prodotti.