La metafora paolina avverte che nessuna esperienza di fede e nessuna teologia può liberarsi delle mediazioni. Ogni discorso su Dio è quindi destinato a restare imperfetto, indiretto, balbettante e incerto. È il destino sospeso delle parole che tentano di esprimere il mistero: passano per specchi che a volte possono essere deformanti.
Accorgersi degli specchi
Quando c’è di mezzo il volto di Dio, la presenza e la qualità del riflesso rischiano di passare inosservate. Ci si espone allora all’ingenuità di scambiare per divino ciò che invece appartiene al proprio mondo interiore e pratico, che non sempre è degno di Dio.
Nel suo testo Il mio credo, Gandhi non aveva torto a denunciare che ci siamo addentrati in un «mare di guai», nel momento in cui abbiamo inteso il dono di essere stati creati a immagine di Dio come un diritto ad assimilare Dio alla nostra immagine. C’è un’inevitabile confusione tra l’io e l’Altro immaginato, che viene guardato, sperimentato e raccontato a partire dal mondo soggettivo.
Certamente quando c’è di mezzo “l’inimmaginabile” è normale attivare un immaginario che parta dalla propria esperienza, perché si ha bisogno di un ponte verso il mistero: le immagini servono ad avvicinarci e assimilarci al divino.
Riflessi poco chiari
In questa porosità dei confini, però, è accaduto che il soggetto maschile si è posto come artefice della cultura e dell’ordine del mondo. Concentrato sui meccanismi di identificazione che gli erano più familiari, l’uomo ha finito per cristallizzare un immaginario teologico preciso, escludendone altri, mutilando di fatto l’esperienza femminile del sacro. Finché non c’è dialettica e discussione aperta con le donne, questa selezione perversa non appare e nulla può davvero modificarsi.
Tutta la Scrittura, in realtà, racconta della necessità di convertire l’immaginario teologico, liberandolo dal sospetto di una trascendenza vendicativa, retributiva, potente, giudicante, escludente: sono presi da immaginari inadeguati Adamo ed Eva che si nascondono per paura di una ritorsione divina, Giona che inizialmente si sottrae alla sua missione, Giobbe che non trova la ragione del proprio dolore, l’uomo che sotterra i suoi talenti, i discepoli che allontanano i bambini, criticano la donna che unge Gesù, sono affascinati dal potere e dal successo e fino all’ultimo resistono alla croce come esito della buona novella.
I Vangeli, in particolare, mostrano che l’immaginario dei discepoli è stato un irrinunciabile punto di partenza per una sequela profonda e affettivamente intensa, ma al contempo insistono a sottolineare che una relazione solida con Gesù e una fede autentica richiedono una riconfigurazione continua del proprio ordine mentale.
Quest’esigenza porta a leggere criticamente la Scrittura stessa, che, preziosa e normativa nel suo invito a vigilare sull’immaginario, ne patisce lo stampo patriarcale. Si deve abitare questa tensione, consapevoli che la forza della necessaria riconfigurazione è nell’evento cristologico e non nella Scrittura.
Immagini maschili e femminili
La teologia femminista sorge sull’urgenza di denunciare la selezione patriarcale che rende difficile l’operazione, mettendoci di fronte al fatto che non abbiamo saputo custodire le immagini bibliche di un divino femminile, abbiamo barattato la straordinaria forma della confessione di fede della Marta giovannea con l’ostinazione per “il fare” della Marta lucana eletta a patrona delle casalinghe, abbiamo dissolto l’apostolicità di Maria Maddalena confondendola con la prostituta pentita e ci siamo macchiati di diverse presbiopie, se non di vera e propria cecità verso tutto ciò che poteva associare donne e sacro.