Giovedì primo luglio, la Turchia è uscita definitivamente dalla Convenzione di Istanbul contro la violenza sulle donne.
Una decisone presa nonostante le proteste di milioni di donne e i molti report pubblicati, tra cui We Will Stop Femicides, che riporta numeri preoccupanti: solo nel 2020 ci sono stati 300 femminicidi accertati e 131 morti sospette di donne, mentre nei primi tre mesi del 2021 le donne uccise sono state 79, con 45 morti sospette.
Uscendo dalla Convenzione di Istanbul, Erdogan e il governo turco annientano la guerra che da anni le donne combattono per i loro diritti: perché se un paese candidato all'Unione Europea può prendere una decisione di questo tipo nel silenzio degli Stati membri, vuol dire che il problema non riguarda solo la Turchia, ma tutte noi.
Una responsabilità sentita anche dalle attiviste di Non una di Meno, che proprio lo scorso giovedì sono tornate in piazza a Milano vicino al consolato turco per protestare contro il governo Erdogan. «È uno strumento in meno nella lotta alla violenza sulle donne – spiega la portavoce della comunità curda milanese Hazal Koyuncuer – specialmente nel nostro Paese dove ogni giorno muore almeno una donna a causa della violenza di genere».
Le attiviste chiedono all’Italia e all’Europa di condannare la mossa della Turchia ma allo stesso tempo si chiedono se in Italia la Convenzione abbia realmente giovato. «L’Italia ha fatto le leggi - spiega Sonia, un’attivista polacca che fa parte di Non Una di Meno - ma è risultata carente sull’attuazione dei quattro punti fondamentali: la prevenzione, le politiche integrate per la rimozione delle diseguaglianze di genere che sono la radice della violenza sulle donne in società, il procedimento contro i colpevoli e la protezione delle vittime con il finanziamento dei centri antiviolenza».
Non solo in Europa, ma in tutto il mondo le donne stanno ancora combattendo per rivendicare i propri diritti base. In Afghanistan, dopo vent’anni dalla cacciata dei talebani da Kabul, il traguardo dei diritti è ancora lontano: il Paese è tuttora classificato come il posto peggiore per essere donne, con una società ancora fortemente patriarcale dove chi ha combattuto i talebani era spesso altrettanto fondamentalista.
Ma le afghane di oggi non sono quelle di vent’anni fa: sono il 40% degli studenti e oltre un quarto dei parlamentari, aprono conti in banca e possiedono 2.500 aziende. Gareggiano alle Olimpiadi e in squadre di robotica, sono professioniste e leader. Eppure oggi ancora non basta.
«Noi attivisti per la pace non abbiamo altra alternativa che essere ottimisti - spiega l’ex vice Speaker del Parlamento Fawzia Koofi al Corriere della Sera, ma si dice delusa perché - l’annuncio del presidente Biden che gli Usa si ritireranno senza condizioni a settembre mette noi che rappresentiamo la Repubblica afghana in difficoltà. La nostra aspettativa nel febbraio 2020 era invece di un ritiro condizionato, legato alla formazione di un governo che includesse non solo i talebani, che sono una realtà del Paese, ma anche le donne, gli accademici, la società civile: un governo accettabile per tutti». Forse i talebani vinceranno ancora, ma per quanto riusciranno a governare, se soli?
«Una società non progredisce se le sue donne non sono istruite» scriveva Khaled Hosseini, ma una società non progredisce se non permette alle donne di concretizzare la propria istruzione, aggiungiamo noi.
Nella speranza che questo tipo di società sia davvero possibile.