“Parole fortissime dalle quali non emerge solo la violenza sessuale, ma anche quella domestica. Nei tribunali si ascoltano tante storie di donne abusate tra le mura di casa e tante donne vengono giudicate prima di essere ascoltate fino alla fine”. Yvette Samnick non nasconde la commozione che le ha provocato il monologo - “duro e meraviglioso”, scandisce - di Rula Jebreal durante la prima serata del Festival di Sanremo. Le violenze di cui ha parlato la giornalista palestinese, alternando il racconto della storia di sua madre a brani delle canzoni d’amore più belle della musica italiana, Yvette le conosce fin troppo bene, ne porta ancora i segni addosso.
Trentacinque anni, camerunense, ha un figlio, tre lauree e oggi lavora come mediatrice culturale nel centro antiviolenza “Roberta Lanzino” di Cosenza. Alle spalle anni di abusi e razzismo che ha raccontato nel libro “Perché ti amo”, dal settembre scorso in libreria per Luigi Pellegrini editore. Una storia che inizia nel suo Paese d’origine, dove il padre - un politico importante, con cinque mogli - picchiava costantemente sua madre - “una volta l’ha fatta abortire per le botte” - e prosegue in Italia, in Calabria, dove Yvette si trasferisce per studiare all’Università e conosce un uomo, il padre di suo figlio, che “diceva di amarmi e intanto mi picchiava, mi chiamava negra di merda”. Violenza assistita prima e violenza domestica poi, e anche quando decide di denunciare il suo convivente, la vita di Yvette è l’inferno evocato da Rula Jebreal nel suo, commosso e commovente, intervento sul palco dell’Ariston.
Sin dall’inizio, ascoltandolo, le immagini si sono autoconvocate, sono tornati alla mente ricordi che bruciano come il sale sfregato sulle ferite. Jebreal leggeva “alcune delle domande poste in un’aula di tribunale a due ragazze che in Italia, non molto tempo fa, hanno denunciato una violenza sessuale” e Yvette ripensava a quel giudice che “mi chiese come mai una donna intelligente, laureata come me, si fosse trovata in questa situazione”. O a quando “durante l’udienza per l’affidamento di mio figlio mi sono sentita ripetere che, in fondo, con il mio ex convivente io avevo avuto solo una lite. Ricordo che dopo mi sentii malissimo. Ma come, pensavo, tutti i miei traumi, tutto il dolore che ho dovuto sopportare e che ancora porto dentro di me sminuiti così, associati a una banale lite?”.
Jebreal elenca i numeri della violenza di genere nel nostro Paese - “ogni 3 giorni viene uccisa una donna, 6 donne sono state uccise la scorsa settimana. E nell’85% dei casi, il carnefice non ha bisogno di bussare alla porta per un motivo molto semplice: ha le chiavi di casa” - e Yvette ripensa agli ultimi tempi della convivenza con “quell’uomo violento, che mi giurava amore e intanto mi costringeva a fare sesso mentre piangevo”. E quell’accusa, ripetuta di continuo davanti a ogni scoppio d’ira, “la colpa è tua, la colpa è tua”. Jebreal racconta la tragedia della madre e Yvette pensa alla sua, di madre, che oggi fa l’assistente sociale, ma durante la giovinezza e la sua vita di moglie ha dovuto sopportare schiaffi, calci, pugni e ricoveri per le botte che le dava il marito.
Con lei, Yvette, che collabora con la UNHCR e la rete D.i.Re nel progetto “Leaving violence, living safe”, per la tutela di donne migranti richiedenti asilo e rifugiate sopravvissute alla violenza, ha fondato in Camerun l’associazione ACLVF, che si occupa di donne maltrattate, abusate e violentate. Con il ricavato dalla vendita del suo libro vuole costruire dei centri antiviolenza per aiutare le donne del suo Paese d’origine, “dove c’è una società patriarcale e maschilista e la violenza di genere non è reato”, spiega. Della lotta ai maltrattamenti e agli abusi contro le donne lei, che le sfumature della violenza le ha conosciute tutte e non ci sta a passare per “eterna vittima” - piuttosto si considera “una vincitrice, una donna che ha voluto essere libera per davvero e non come mi volevano gli altri” - ha fatto il suo impegno.
“Sollecitare una presa di coscienza diffusa su questo fenomeno è fondamentale”, ragiona Yvette. Per questo, momenti come il monologo di Rula Jebreal a Sanremo sono “molto importanti. Manifestazioni popolari e molto seguite, come certamente è il Festival di Sanremo, devono essere utilizzati per sensibilizzare su questi temi quante più persone possibile. Noi donne abbiamo bisogno di voce, per gridare “basta”. Siamo stanche di combattere per i nostri diritti che ci spettano, non certo per concessione altrui. Non voglio più avere il dito puntato contro perché sono una donna e voglio sentirmi, come sono, libera di esprimermi al meglio”, va avanti Yvette. E chiude - un po’ dichiarazione di intenti un po’ richiesta di aiuto - “Vorrei avere le stesse possibilità di un uomo perché ho le stesse capacità”