Io sono sociologa, e per vocazione mi sono concentrata più sull’analisi delle situazioni che sugli interventi per trasformarle.
All’inizio ho studiato i legami intergenerazionali, ma quando ho notato una grande differenza fra nonne e nonni, ho cominciato a dare maggiore attenzione allo sguardo di genere, ovvero ai “generi”, come preferisco dire.
Nel 2012 abbiamo condotto una ricerca su maschile e femminile, che intendevamo circoscritta all’educazione. Invece è stata ben più lunga del previsto e ha prospettato conclusioni ben più ampie: noi, uomini e donne, siamo intessuti di relazioni violente. Sebbene fisicamente e statisticamente prevalga la violenza maschile, i rapporti di potere nella società sono permeati da meccanismi violenti e la loro dinamica originaria, da quanto emerso, è quella gerarchica.
Studiare la gerarchia fra maschio e femmina, poiché l’uomo è quasi sempre in posizione dominante rispetto alla donna, permette di capire come il modello gerarchico permei molti altri tipi di relazione, per esempio fra abile e disabile, fra migranti e autoctoni, fra etnie. Queste relazioni sono violente in sé, perché gerarchizzano le persone. Il percorso educativo che abbiamo avviato cerca di smascherare questo meccanismo e di agevolare rapporti più collaborativi nelle relazioni sociali.
“Generi” senza contrapposizione
Oggi non trovo particolarmente utile sottolineare ciò che ci differenzia come maschi e femmine: preferisco piuttosto cercare le tracce comuni.
Fino a una decina di anni fa gli studi di genere sono stati pensati dalle donne, per le donne, con le donne. Sinceramente mi rattrista partecipare a iniziative per contrastare la violenza di genere dove gli uomini sono assenti. È come se mancasse un pezzo.
Il femminismo degli anni Settanta ha evidenziato le gabbie che molte società hanno imposto sulle donne, ma non quelle che hanno imposto sugli uomini. Da oltre trent’anni negli Usa sono iniziati studi più inclusivi, che fanno luce sulle limitazioni che gli stereotipi di genere impongono anche sugli uomini.
Quando un bambino si discosta dall’ideale maschile, viene denigrato senza pietà dai suoi stessi coetanei. Non si può dire altrettanto delle bambine che presentano tratti considerati “maschili”. È come se essere maschio valesse di più che essere femmina. Certamente ci sono differenze, ma c’è anche l’uguaglianza di valore.
Non si tratta di annullare le differenze, ma di oltrepassare un terreno di contrapposizione che incentiva il sistema gerarchico.
A mio avviso, caratteristiche tradizionalmente associate al femminile, come cura, generatività e vulnerabilità, sono semplicemente tratti umani. Perciò preferisco parlare di “generi”: esiste anche una generatività maschile.