Giovedì, 26 Agosto 2021 18:31

Finanza “trasformativa”: qualche chiarimento

Mentre la finanza “sostenibile” pare includere sempre più operazioni poco sostenibili, si cercano altri termini per indicare operazioni finanziarie che apportino davvero un impatto positivo sulla società e sull’ambiente. Combonifem ne parla con Mario Calderini, professore ordinario di Ingegneria Gestionale al Politecnico di Milano

Professor Calderini, finanza sostenibile e finanza d’impatto sono sinonimi?
A mio avviso non lo sono.
La finanza sostenibile si colloca intenzionalmente in traiettorie genericamente buone per il Pianeta (energie rinnovabili, economia circolare...), ma è diversa dalla finanza d’impatto, che ha tre caratteristiche particolari: è intenzionale, ovvero si focalizza su un problema specifico (per esempio ridurre la dispersione scolastica del 3%); è misurabile, ovvero esiste una proporzionalità tra l’impatto misurato e i rendimenti finanziari; è addizionale, ovvero chi investe è disponibile a correre un rischio un po’ maggiore di quello remunerato dal rendimento o rinuncia a un po’ di rendimento nel tentativo di generare impatto sociale o ambientale.
Quando la finanza è d’impatto è anche trasformativa. Questo non è sempre vero per la finanza che si definisce sostenibile, perché talvolta assistiamo a fenomeni di “washing”, ovvero la sostenibilità degli investimenti non è reale ma esclusivamente esteriore, per migliorare la propria reputazione. In tal caso la finanza non è trasformativa ma conservativa: mantiene lo status quo. E affermare che l’investimento Esg (attento alla questione ambientale/environmental, sociale/social e di gestione/governance) genera anche maggiori profitti finanziari non corrisponde proprio al vero: la finanza sostenibile divulga questa narrativa perché investe soprattutto in progetti Esg che generano maggior profitto, ma trascura gli altri.

In vent’anni, la finanza d’impatto avviata da Banca Etica, Banca Prossima e Banche di Credito Cooperativo non ha raggiunto la necessaria “massa critica” per avviare un’effettiva trasformazione della finanza; è riuscita però a diffondere la narrazione della sostenibilità e a renderla prevalente. Lei auspica che avvenga una «contaminazione genetica» fra queste banche minori e le altre. Concretamente, come?
In effetti, dieci anni fa pensavo che Banca Etica, Banca Prossima e Oltre Venture nel campo dell’investimento equity avrebbero rappresentato un modello da imitare per molti, trasformativo e capace di costruire un’idea di finanza alternativa: il loro modello sarebbe stato apprezzato a tal punto da essere imitato anche dalle altre banche o dai fondi di investimento. Questo purtroppo non è successo, perché l’umanità non ha ancora interiorizzato appieno l’urgenza delle sfide sociali e ambientali che la attendono. Attraverso operazioni finanziarie ad alto rendimento, la maggioranza delle persone pensa di poter ancora estrarre risorse dal Pianeta e dall’economia senza danni per l’ambiente e la società. Oggi, però, le sfide sono drammatiche anche per le società più ricche e il problema è diventato pressante.
Per «contaminazione genetica» intendo che i valori e l’esperienza della finanza d’impatto cui facevo riferimento vengano interiorizzati dalle grandi banche e ne condizionino il modo di investire. Per esempio, nel 2018 Intesa San Paolo, la più grande banca italiana, era interessata a perseguire la finanza d’impatto e ha inglobato Banca Prossima, una piccola banca molto avanzata nel campo della finanza trasformativa. Avevo sperato che in quella operazione i valori e l’esperienza di Banca Prossima venissero interiorizzati da Banca Intesa, ma ho l’impressione che questo non stia avvenendo del tutto e l’esperienza di Banca Prossima rischia di perdersi.
Io spero almeno che Banca Etica e le altre banche davvero impegnate a perseguire la finanza d’impatto continuino nel loro modo di operare, e con la loro ostinata presenza possano condizionare la finanza tradizionale. Se l’esperienza di queste banche specializzate andrà perduta, vedremo prevalere strategie finanziarie apparentemente sostenibili ma che garantiscono soprattutto alti rendimenti, e l’occasione di far tesoro dell’esperienza e del saper fare delle banche d’impatto andrà persa.

Ci sono banche con una storia molto complicata di etica della finanza, come Unicredit, che cercano di valorizzare l’esperienza delle banche d’impatto?
Direi che ci provano. Unicredit, per esempio, ha recentemente creato una struttura di impact banking per sviluppare operazioni di finanza trasformativa. Altre esperienze interessanti si trovano in campo internazionale. Il rischio, però, è che nelle grandi banche queste strutture rimangano centri ristretti di altissima competenza i cui valori e modelli fanno fatica a propagarsi nella struttura organizzativa, alle filiali e ai funzionari. Spesso, esiste un centro di pensiero attento alla finanza d’impatto ma non esiste ancora una diffusa cultura in tal senso. Le stesse norme di Basilea, volte a perseguire la stabilità monetaria e finanziaria, ostacolano il perseguimento di strategie d’impatto perché non consentono di riconoscerne appieno il valore sociale e ambientale. Affinché la finanza possa diventare davvero “trasformativa” nel ridurre le diseguaglianze sociali e preservare il Pianeta, sarebbe anche necessario intervenire sulle Regole di Basilea.

La responsabilità sociale d’impresa, il bilancio di sostenibilità e le metriche Esg sono indicatori affidabili per verificare che operazioni presentate come “finanza d’impatto” lo siano veramente?
Non interamente, perché sono operazioni funzionali all’approccio volto a conservare le rendite di posizione della finanza tradizionale. Nel caso del bilancio di sostenibilità, la banca persegue anzitutto il proprio interesse: se nel consuntivo emergono risvolti etici o di impatto sociale, non sono intenzionali.
La responsabilità sociale d’impresa (Rsi) può essere un approccio molto serio e consistente, ma anche una strategia di facciata molto pericolosa, perché veicola un’informazione parziale o errata. Anche alcune forme di filantropia possono esserlo: erogano ingenti fondi per fini sociali, ma lo fanno con risorse ottenute attraverso operazioni industriali o finanziarie dannose. Certamente questa filantropia non è d’impatto.

Quando parla di difetti nell’interpretazione delle metriche Esg, per quale motivo si concentra soprattutto sulla relazione fra E e S?
La E è più facile da misurare e attrae anche per il suo respiro planetario, mentre la S è più difficile da misurare e generalmente i parametri adottati non affrontano le questioni strutturali e non riducono le diseguaglianze. Non è scontato che ci sia una correlazione diretta fra E e S; molte operazioni attente alla E hanno in realtà costi sociali che penalizzano intere comunità. Per esempio, quando una miniera di carbone deve essere chiusa perché troppo inquinante, quali sono le conseguenze per chi lavora in quella miniera e per le relative famiglie? Ciò non vuol dire che la miniera non debba essere chiusa, ma che i due problemi vanno affrontati insieme.
Nel medio periodo, impatto ambientale e sociale possono convergere, ma la difficoltà è nella transizione iniziale: è necessario dosarla nei tempi. Se troppo accelerata, genera costi sociali talmente alti da impedire la stessa transizione.

Come giudica il movimento mondiale per il disinvestimento dalle fonti fossili e il reinvestimento in fonti davvero rinnovabili e pulite?
Le campagne di disinvestimento dalle fonti fossili sono utili se collocate in un’ottica di attenzione ai tempi e al territorio. Io non sono esperto di energia, ma penso che l’abbandono delle fonti fossili sia un percorso inevitabile e con risvolti geopolitici non indifferenti. Per esempio, in relazione agli impegni che ogni Stato deve assumere in ottemperanza all’Accordo di Parigi per contrastare il cambiamento climatico (Nationally Determined Commitments - Ndc), la rinuncia alle fonti fossili per adottare fonti pulite più costose non dovrebbe gravare sui Paesi che non hanno inquinato in passato.

 

Continua...

Last modified on Giovedì, 26 Agosto 2021 18:50

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